Jone, ossia L'ultimo giorno di Pompei
Musica di Errico Petrella
Massimiliano Stefanelli, direttore
Personaggi e interpreti
Arbace Marco Caria baritono
Jone Clarissa Costanzo soprano
Glauco Marco Berti tenore
Nidia Nino Surguladze mezzosoprano
Burbo Mariano Buccino basso
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Programma
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Errico Petrella
Palermo 1813 - Genova 1877Jone, ossia L'ultimo giorno di Pompei - Dramma lirico in quattro atti su libretto di Giovanni Peruzzini, tratto dal romanzo di Edward Bulwer-Lytton “Gli ultimi giorni di Pompei”
Estratti dall’opera
I ATTO
Sinfonia
“Canti chi vuole d’elmi e corazze…” aria Glauco, Nidia, Burbo, Jone, Arbace
“Abbandonata ed orfana…” aria Nidia
“Ah! Immagin care…” terzetto Glauco, Nidia, Burbo
“È un giorno di fortuna…” duetto Burbo, Arbace
“Oh, qual…la prima volta m’apparia…” aria Jone
“Fra danze oscene ed orgie…” duetto Arbace, Jone
“Oh! Tanto e come pietosa a me!...” terzetto Jone, Nidia, Arbace
II ATTO
“É là…rapito in estasi…” duetto Nidia, Burbo
“Or sarà pago Arbace…” scena Burbo
“O, profani diletti…” duetto Glauco, Jone
“Che mai veggo…” terzetto finale II Glauco, Jone, Nidia, Arbace
III ATTO
“Inutil peso della terra Della corona egizia” aria Arbace
Intermezzo
“Ecco la sua magion…Jone non m’ode…” recitativo Jone, Nidia
“Come mi balza impaziente il cor…” finale III Jone, Nidia, Glauco, Arbace, Burbo
IV ATTO
Preludio e marcia lugubre
O, Jone, O Jone di quest’anima…” aria Glauco
“Glauco, Glauco, dove sei?... L’ami tanto e l’abbandoni…” duetto Jone, Glauco
Scena finale Jone, Glauco, Nidia, Arbace
Coetaneo di Verdi e allievo a Napoli non solo di Nicola Zingarelli ma anche dei “maestrini” Michele Costa e Vincenzo Bellini, Errico Petrella manifestò sin da giovanissimo il suo talento musicale. All’età di 15 anni, quando era ancora studente, fece rappresentare, infatti, presso La Fenice di Napoli, un piccolo teatro della città partenopea, la sua commedia per musica Il diavolo color di rosa su libretto di Andrea Leone Tottola, ottenendo un vivo successo. Questa rappresentazione, però, costò a Petrella l’espulsione dal Conservatorio, dal momento che il giovane compositore aveva contravvenuto ai consigli di Zingarelli che gli aveva espressamente proibito di fare il suo debutto in teatro come compositore prima che avesse completato gli studi. Il successo di quest’opera diede, tuttavia, una certa notorietà a Petrella che, costretto a proseguire i suoi studi privatamente con Francesco Ruggi, riuscì a far rappresentare al Teatro Nuovo Il giorno delle nozze ovvero Pulcinella marito e non marito (1830), su libretto di Tottola, Lo scroccone (1834), una commedia buffa, di cui non si conosce l’autore del libretto, I pirati spagnuoli (1838) e Le miniere di Freinbergh (1843). Nonostante i buoni auspici di Giuseppe Festa, direttore d’orchestra del San Carlo, in questo momento, le porte del più importante teatro napoletano, all’epoca gestito da Domenico Barbaja, rimasero chiuse al compositore palermitano che nel 1843 si ritirò dalle scene per farvi ritorno nel 1851 sempre al Teatro Nuovo con Le precauzioni su libretto di Marco d’Arienzo. Fu quest’opera, che, essendo in lingua e con i recitativi, fu anche la sua prima a circolare fuori Napoli, a guadagnarli le attenzioni del San Carlo, dove nel 1852 fu rappresentato, dopo la prima avvenuta al Fondo, il suo dramma lirico, Elena di Tolosa, su libretto di Domenico Bolognese. Fu, allora, che il talento di Petrella attirò l’attenzione dell’editore Francesco Lucca, ansioso di contrapporre un compositore di punta per la sua casa editrice, a Verdi, le cui opere erano pubblicate da Ricordi. Se la fama conseguita da Petrella non è certo paragonabile a quella del Bussetano, non si può negare che le sue opere dagli anni 50’ dell’Ottocento fossero tra le più rappresentate. Tra queste va ricordata la sua prima opera seria, Marco Visconti su un libretto di Bolognese, tratto dal romanzo di Tommaso Grossi, che, rappresentata al San Carlo nel 1854, fu ripresa alla Scala per la quale Petrella, nel 1858, compose Jone ossia L’ultimo giorno di Pompei, su un libretto di Giovanni Peruzzini tratto da Gli ultimi giorni di Pompei di Edward Bulwer Lytton. Alla prima rappresentazione, alla Scala, il 26 gennaio 1858, con un cast di altissimo livello per l’epoca, formato dal tenore Carlo Negrini (Glauco), dal soprano Augusta Albertini (Jone) e dal baritono Giovanni Guicciardi (Arbace), Jone ottenne un grande successo testimoniato dalle 21 repliche milanesi. In questo periodo sembra che Petrella abbia conseguito un notevole successo alla Scala, in quanto figurerebbe al sesto posto in una speciale classifica dei compositori le cui opere godettero del maggior numero di rappresentazioni nel prestigioso teatro milanese. A guidare questa classifica era, con 666 recite delle sue opere, naturalmente Verdi, seguito da Donizetti (320), da Rossini (220), da Bellini (137) e da Meyerbeer (85). Jone, da parte sua, ebbe un successo che superò i confini italiani in quanto poté vantare riprese in tutto il mondo, eccezion fatta per la Francia e la Germania, fino al 1924, anno a cui risale l’ultimo allestimento a Palermo. Dopo l’allestimento di Palermo, l’opera cadde in una forma di oblio dal quale fu sottratta nel 1981 grazie a una sua ripresa a Caracas che è stata anche registrata. Alla fortuna presso il pubblico non è, però, corrisposto un atteggiamento benevolo da parte della critica che ha stroncato il libretto definendolo “truculento e drammatico” e l’orchestrazione liquidata, in modo un po’ troppo sbrigativo, come degna di un “maestro di banda provinciale”.
Dopo Jone, Petrella scrisse ancora una dozzina di opere, tra cui I promessi sposi (1869) su libretto di Antonio Ghislanzoni, che non gli consentirono, comunque, di crearsi una posizione economicamente solida. Nel 1870, alla morte di Mercadante, avrebbe accettato volentieri il posto di direttore del Conservatorio di Napoli, rimasto vacante, ma che fu dato a Lauro Rossi il quale ricopriva lo stesso incarico a Milano. Malato di diabete, Petrella morì poverissimo a Genova, il 7 aprile 1877, lasciando incompiuta la sua ultima opera, Solima su un libretto che Ghislanzoni aveva tratto da Salammbô di Flaubert. Traslate a Palermo, le sue spoglie mortali riposano oggi nella Chiesa di San Domenico.
L’opera: la trama e la struttura formale
Dal punto di vista formale, Jone segue la classica organizzazione del melodramma italiano ottocentesco, basata su un susseguirsi di “numeri” musicali, al loro volta costituiti da più sezioni di forme in sé chiuse (recitativi, arie duetti, terzetti, cori) e diverse tra loro per il tempo, la tonalità e l’organico vocale.
Sinfonia
L’opera si apre con una sinfonia, scritta, dal punto di vista formale, secondo la struttura di quelle rossiniane con un’introduzione lenta (Andante sostenuto) a cui segue un Allegro, in forma-sonata, privo dello sviluppo, ma con il crescendo alla fine dell’esposizione. In essa sono utilizzati alcuni dei temi principali dell’opera a partire da quello della celebre marcia funebre all’inizio dell’Andante sostenuto che cede il posto al bel tema della cabaletta Oh, perdonami! Tua schiava del duetto tra Arbace e Jone del quarto atto, che qui assume una forma eterea perché presentato dai violini nel registro acuto. I due temi dell’Allegro sono tratti rispettivamente dal finale dell’opera (Se a noi la sorte - lo vieta in vita / congiunti in morte - saremo almen!) e dalla stretta del Finale del primo atto (Non lusingarti).
Atto primo
Nel 79 d. C. nella taverna di Burbo, che si trova nella città di Pompei, insieme a dei gladiatori che, su un brillante tema in 6/8, chiedono altro vino al taverniere (Vuote son l'anfore...), ci sono anche il giovane ateniese Glauco e i suoi amici, i patrizi Sallustio e Clodio. Sallustio fa un incauto accenno a Jone, giovane donna amata da Glauco, il quale, dopo essersi irritato perché il nome della fanciulla era stato pronunciato in una taverna, per dimostrare ai suoi amici e agli avventori di essere rimasto la stessa persona, intona uno spensierato brindisi (Canti chi vuole d'elmi e corazze) su una melodia orecchiabile. Il brindisi è interrotto da un urlo di Nidia, una schiava di Burbo, che Glauco compra per liberarla subito dopo. Segretamente innamorata di Glauco, la fanciulla, però, rifiuta la libertà e, nella romanza piena di pathos Abbandonata, ed orfana, chiede di restare accanto a lui come schiava perché non avrebbe un posto dove andare. Glauco la accontenta e, nella stretta dell’introduzione, canta il suo amore per Jone, mentre Nidia, nel cui viso Burbo legge l’amore per il giovane ateniese, manifesta la sua gioia perché le è stato concesso di vivere accanto all’uomo amato.
Rimasto solo, Burbo medita sulla fortuna occorsagli quel giorno (recitativo: È un giorno di fortuna), in cui è stato ricolmato d’oro da Glauco per la vendita della schiava. Subito dopo è raggiunto da Arbace, gran sacerdote di Iside, anche lui innamorato di Jone. Inizialmente stizzito per la decisione di Burbo di vendere Nidia a Glauco, Arbace comprende, grazie al taverniere, che la fanciulla può essergli utile per mettere in atto il suo piano: avvelenare Glauco con un filtro d’erbe distillato dalla sibilla, dalla quale ordina a Burbo di recarsi nel duettino Vanne, e serba geloso l'arcano.
La scena si sposta nella stanza di Jone la quale, dopo aver ricordato il suo primo incontro con Glauco nell’arioso Oh, qual la prima volta m'appariva, esprime i suoi sentimenti d’amore per l’uomo nel cantabile della cavatina Nel sol quand'è più splendido, al quale non sono estranei echi belliniani presenti anche nella parte introduttiva di questa scena, per affermare con forza il suo amore nella cabaletta L'amo, l'amo, e la fiamma immortale, intrisa di belcantistiche agilità. Nel finale d’atto, la giovane donna è raggiunta da Arbace il quale, nel recitativo Godo in trovarti lieta, riesce a strappare a Jone, che, da parte sua, lo considera come un padre, il nome dell’uomo amato. Arbace, allora, diffama Glauco dicendo a Jone che l’uomo da lei amato in realtà è dedito ad orge e danze oscene nel cantabile Fra danze oscene e orge, aggiungendo che, proprio quella notte, aveva acquistato una schiava per inebriarsi di un nuovo amore. Dirce, schiava di Jone, annuncia l’arrivo di Nidia che reca con sé un papiro nel quale si legge che Glauco ha regalato proprio lei alla sua amata. Ciò suscita la gioia di Jone (Cara a Glauco, o mia fanciulla) e lo sdegno di Arbace che, nella stretta del finale d’atto, Non lusingarti, nella quale ritorna il secondo tema dell’Allegro della sinfonia d’apertura, finge di mettere in guardia la giovane dalle lusinghe di quell’amore, del quale la fanciulla è, però, sempre più convinta.
Atto secondo
Introdotta da un breve preludio, la scena si apre nel porticato che dà accesso ai giardini della casa di Jone, dove Nidia, triste e appoggiata a una colonna, ascolta un coro interno, nel quale, in una scrittura a cui non sono estranei echi belliniani, le donne esaltano Jone (Sotto le dita eburnee). La giovane schiava è raggiunta da Burbo che, nel recitativo Fa' core e spera, suggerisce a Nidia di far bere a Glauco un filtro d’amore che possa farlo innamorare di lei. La donna, prima titubante (tempo d’attacco: Inganno egli è), si fa convincere da Burbo (cantabile: È là... rapito in estasi) che alla fine (tempo di mezzo: Ebben!... Spumanti calici) riesce a venire a capo delle ultime resistenze della giovane schiava la quale, dopo aver accettato la proposta del suo vecchio padrone, sogna di poter godere del suo amore (cabaletta: O primi d'amore fantasmi ridenti). Subito dopo, Nidia porge il filtro a Glauco, che, come si apprende dalla descrizione di Burbo (recitativo: Or sarà pago Arbace!...), beve solo pochi sorsi. Una breve introduzione orchestrale (Andante), che ben rappresenta il tormento di Glauco, introduce il recitativo nel quale l’uomo manifesta il suo amore per Jone. Giunta subito dopo, quest’ultima inizialmente chiede all’uomo di fuggire da lei per confessargli, alla fine, il suo amore (tempo d’attacco: Glauco, fuggi da me!). I due giovani, quindi, manifestano la loro gioia per questo amore corrisposto nel dolce e bel cantabile Dell’Illisso sulle sponde, ma la loro serenità è turbata dalla rivelazione di Jone in base alla quale Arbace si oppone alla loro unione (tempo di mezzo: Te contendermi d'Arbace / il rigor non può). Glauco, allora, invita Jone a fuggire in Grecia via mare con lui (cabaletta: Vieni, vien... la nave è presta...), ma, poi, preso dal delirio indotto dal filtro, incomincia a vaneggiare evocando, sul tema del Brindisi del primo atto, immagini licenziose ((Finale: Vo' del tuo crine baciar le anella). Questo suo comportamento suscita l’orrore della giovane che, istigata contro di lui, da Arbace, alla fine, decide di seguire quest’ultimo, mentre Nidia, avendo compreso di essere stata tradita da Burbo, invoca su di sé l’ira di Venere che prega affinché mantenga in vita Glauco.
Atto terzo
Di notte, in una piazza di Pompei, sulla quale si affacciano sia la casa di Arbace che il tempio di Iside, fioraie e venditori di pesce e di frutta pubblicizzano, in un coro Chi vuol pistacchi e datteri!, la loro merce, quando il cielo si oscura e viene avvertita una scossa di terremoto, resa musicalmente con inquietanti settime diminuite. Questi eventi vengono interpretati come segnali di sventura dal popolo che chiede ad Arbace di salvarlo. Uscito dalla propria casa, Arbace, prima, critica la paura del popolo (recitativo: Inutil peso della terra) e, poi, nel cantabile Della corona egizia, medita sul potere del saggio, che sarebbe superiore a quello caduco dei regnanti. Pur minate da sinistri presagi (tempo di mezzo: Sinistro è il ciel), le sue certezze non vengono scalfite perché pregusta le gioie d’amore, concessegli dal matrimonio con Jone, che lo farebbe, comunque, morire felice (cabaletta: D'amor piena ed ineffabile).
Nella scena successiva, introdotta da un breve preludio orchestrale, che si segnala per il bell’assolo del clarinetto, Jone, accompagnata da Nidia, si reca nei pressi della casa di Glauco (recitativo: Ecco la sua magion) e chiede alla dea o di renderlo degno del suo amore o di strapparlo dal suo cuore.
La scena si sposta in una stanza nella casa di Arbace, il cui carattere pomposo è reso con un tema ieratico. Il sacerdote attende Jone, al cui cospetto avviene un prodigio: mentre tutto intorno diventa scuro, il simulacro di Iside sembra animarsi, e i suoi occhi brillano d'una fiamma turchina e scintillante. Nel frattempo un coro interno (A que' fiori, o giovinetta, / la tua man non appressar) dà dei suggerimenti a Jone. Subito dopo la scena si rischiara e appare un ridente giardino, chiuso nel fondo da un elegante tempietto, mentre si sente un coro di ninfe (Un core per comprenderti). Alla fine, il prodigio indica a Jone in Arbace l’uomo che dovrebbe sposare, suscitando la delusione della fanciulla che oppone un netto rifiuto alle profferte dell’uomo (tempo d’attacco: Sì, d'amor sublime, ardente / t'amo, o Jone!) il quale, alla fine, dice che nessuno avrebbe potuto sottrarla a lui. Giunge in quel momento Glauco che dà avvio al concertato (Tu sol, tu sol sacrilega), particolarmente curato dal punto di vista contrappuntistico. Subito dopo, il giovane ateniese cerca di avventarsi su Arbace brandendo contro di lui un pugnale, ma è fermato dai sacerdoti presenti che decidono di portarlo al circo per il supplizio.
Atto quarto
In una strada di Pompei, sulla quale si affaccia l’anfiteatro, cittadini e popolani si recano al teatro e commentano con Burbo i tristi avvenimenti che hanno visto come protagonista Glauco (Coro: Delle arene, tu antico campione). Preceduto e seguìto da Soldati e da Guardie, Glauco, al suono di una marcia funebre, entrata nel repertorio delle bande che la eseguono in occasione di funerali o durante il periodo della Settimana Santa, attraversa la scena e, dopo aver proclamato la sua innocenza (recitativo: Un istante vi chieggo!), dà il suo ultimo addio a Jone (cantabile: O Jone! - O di quest'anima). La donna, in preda a una grande agitazione e trepidante per la sorte di Glauco (recitativo: Glauco, ove sei?... d'intorno a me non sento), è raggiunta da Arbace, il quale le offre la salvezza del giovane ateniese in cambio del suo amore (tempo d’attacco: Tu?!... - ti conosco al fremito). Jone oppone un nuovo rifiuto ad Arbace che cerca di convincerla (cantabile: L'ami tanto e l'abbandoni). Si sente di nuovo il suono della marcia funebre (tempo di mezzo: Tremar ti veggo!), che comunque non fa indietreggiare Jone la quale, dopo aver opposto un netto rifiuto ad Arbace, lo supplica nella cabaletta Oh, perdonami! Tua schiava. Quando sembra tutto perduto, voci del popolo, che gridano Arbace a morte, ridanno speranza a Jone che va in cerca del suo Glauco, salvato da Nidia che aveva rivelato al pretore le nefande trame di Arbace, mentre Pompei è scossa da un violento boato. I due amanti si ricongiungono e alla fine, sulle note del primo tema dell’allegro della sinfonia, Se a noi la sorte - lo vieta in vita / congiunti in morte - saremo almen!, cercano di fuggire insieme, mentre la cenere del Vesuvio copre la città.
Riccardo Viagrande