Bellini/Verdi /Martucci
Daniel Oren, direttore
Annalisa Stroppa, mezzosoprano
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Programma
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Vincenzo Bellini
Catania 1801 - Puteaux 1835Norma, sinfonia
Allegro maestoso e deciso
Composta in meno di tre mesi tra l’inizio di settembre e la fine di novembre del 1831, anno prodigioso per Bellini, reduce del grande successo ottenuto con la Sonnambula il 6 marzo al teatro Carcano di Milano, Norma è una delle sue opere più note, nonostante il fiasco della prima rappresentazione avvenuta il 26 dicembre dello stesso anno alla Scala di Milano. Così Bellini commentò a caldo la stessa sera della prima in una lettera indirizzata al suo amico e compagno di studi al Conservatorio Francesco Florimo:
“Ti scrivo sotto l’impressione del dolore: di un dolore che non posso esprimerti, ma che tu solo puoi comprendere. Vengo dalla Scala: prima rappresentazione della Norma. Lo crederesti… Fiasco!!! Fiasco!!! Solenne fiasco!!!".
L’opera, giudicata troppo affrettatamente fiacca e stentata dalla «Gazzetta privilegiata di Milano» nel numero del 30 dicembre, non ebbe, però, molta difficoltà ad affermarsi immediatamente e qualche giorno dopo, il 3 gennaio 1832, lo stesso quotidiano milanese dovette ricredersi, ammettendo che:
“Il giudizio del pubblico, sempre incerto la prima sera di uno spettacolo, si è dichiarato successivamente favorevole e lo spartito di Bellini potrà essere cantato con buon successo”.
L’insuccesso della prima serata, dovuto forse sia alla scarsa vena di Giuditta Pasta, che aveva trovato particolarmente difficile la “cavatina” Casta diva, sia all’ostilità di una parte del pubblico sobillata da Giulia Samoyloff, amante di Pacini, compositore catanese meno famoso e rivale di Bellini, che, il 10 gennaio dello stesso anno, avrebbe dovuto mettere in scena sempre nel teatro scaligero il suo Corsaro, non pregiudicò l’affermazione dell’opera che tenne il cartellone per ben 34 serate. Della grandezza di Norma si era accorto Gaetano Donizetti, il quale, certamente molto più competente del pubblico scaligero e dell’anonimo recensore della «Gazzetta privilegiata di Milano», aveva scritto a un amico il 31 dicembre 1831:
“L’unico avvenimento musicale di straordinaria importanza è stato quello delle rappresentazioni della Norma del giovane maestro Vincenzo Bellini… A me tutto lo spartito della Norma piace moltissimo e da quattro sere vado a teatro per risentire l’opera di Bellini fino all’ultima scena”.
L’opera si apre con la splendida Sinfonia, che ne introduce il clima drammatico sin dal celeberrimo incipit costituito da perentori accordi in sol minore intercalati da pause. Dopo un primo tema agitato e nervoso, che anticipa, secondo l’uso romantico introdotto da Weber, alcuni momenti particolarmente drammatici dell’opera e soprattutto alcuni interventi dell’orchestra durante i recitativi, appare in sol maggiore il tema del duetto dell’atto secondo tra Norma e Pollione. Dopo un nuovo ponte modulante nervoso e drammatico, questo tema riappare in si bemolle maggiore per cedere il testimone a un nuovo momento agitato che precede la suggestiva coda in sol maggiore, un’oasi di poetica contemplazione prima del breve e movimentato finale.
Durata: 8'
Giuseppe Verdi
Roncole di Busseto, 1813 - Milano, 1901I Vespri siciliani, sinfonia
Largo, Allegro agitato, Prestissimo
Tra le sinfonie verdiane quella dei Vespri Siciliani è una delle più famose, amate dal pubblico ed eseguite con maggiore frequenza, nonostante il compositore di Busseto fosse stato sempre un convinto assertore della priorità del canto e dell’espressione vocale sulla musica strumentale. Una testimonianza tangibile del suo scarso interesse per la musica strumentale è costituita dall’esiguo numero di sinfonie d’opera in tutto 11, rispetto alla produzione operistica comprendente 26 opere, delle quali alcune sono introdotte da brevissimi preludi capaci di sintetizzare, in poche battute, i punti nodali del dramma. Con questo atteggiamento lo stesso Verdi ha dato adito a feroci critiche sulle sue qualità di strumentatore e sulla sua musica strumentale che, tuttavia, è stata rivalutata dalla moderna musicologia, secondo la quale è incisiva e, comunque, sempre perfettamente inquadrata all’interno di una solida espressione drammaturgica.
Questo discorso vale perfettamente anche per la sinfonia dei Vespri Siciliani, opera che ebbe, però, una lunghissima e difficoltosa gestazione, dovuta al fatto che Verdi, poco versato al genere del Grand-Opéra, lavorò a essa lentamente e senza particolare passione, forse anche perché infastidito dall’ambiente musicale che ruotava attorno all’Opéra di Parigi, allora chiamata Académie Impériale de Musique. Quando nel 1852 la direzione del teatro parigino lo aveva contatto per la
composizione di un’opera che doveva essere rappresentata nel 1855 in occasione dell’Esposizione Universale, certamente Verdi, che firmò il contratto in tempi sorprendentemente rapidi il 26 febbraio dello stesso anno, era rimasto lusingato e molto probabilmente stimolato dalla possibilità di fare un dispetto all’ebreo Meyerbeer, il compositore più rappresentativo del Grand-Opéra, come ci è testimoniato da una dichiarazione alquanto maliziosa della futura moglie Giuseppina Strepponi, che così si espresse: faire mourir le Juif d’une attaque de réclame (fare morire l’Ebreo per un attacco di pubblicità). Meyerbeer, infatti, era solito reclamizzare le sue opere molto tempo prima con un’operazione che Verdi riteneva disgustosa, come si evince da una lettera indirizzata a Clara Maffei il 2 marzo del 1854 in seguito alla rappresentazione dell’Étoile du Nord del compositore tedesco:
“Infine io non ho milioni e le poche migliaia di franchi guadagnate con le mie fatiche non le spenderò mai in réclame, in claque, e simili sozzure. E ciò pare necessario pel successo! Pochi giorni sono anche che Dumas nel suo giornale diceva: «Che peccato che Rossini non abbia fatto rappresentare i suoi capolavori nel 1854! C’è anche da dire però che Rossini non ha mai avuto quella vivacità tedesca che sa far fermentare sei mesi prima il successo dentro il calderone dei giornali e prepara anche l’esplosione d’intelligenza della sera della prima. Ciò è ben vero»: io era alla prima rappresentazione di questa Étoile du Nord ed ho capito poco o nulla, mentre questo buon pubblico ha capito tutto, ed ha trovato tutto bello, sublime, divino… E questo stesso pubblico non ha ancora dopo 25 o 30 anni compreso il Guglielmo Tell, e perciò lo eseguisce storpiato, mutilato, con tre atti invece di cinque e con una mise en scène indegna! E questo è il primo teatro del mondo…”
Non era soltanto l’ambiente parigino a infastidire Verdi, ma anche il comporre per un genere come quello del Grand-Opéra, che non gli era per niente congeniale, come egli fece capire in una lettera indirizzata il 9 settembre 1854 all’amico compositore Cesare De Sanctis:
“Ho appena finito quattro atti della mia opera francese. Mi restano il quinto, i balletti, e l’istromentazione. Quando avrò finito sarò ben felice. Un’opera all’Opéra è fatica da ammazzare un toro. Cinque ore di musica?... Hauf”.
Dopo vari problemi, che si verificarono durante le prove, l’opera, il cui libretto è un adattamento a opera di Eugène Scribe e di Duveyrier di un vecchio Duc d’Albe, preparato prima per Halévy e, poi, per Donizetti, andò in scena il 13 giugno del 1855, diventando l’attrazione più importante dell’Esposizione Univerale, con un grande successo del quale Verdi rimase soddisfatto. Scrisse, infatti, dopo la prima alla contessa Clarina Maffei:
“I Vespri Siciliani mi pare non vadano troppo male. […] Il giornalismo di qui è stato o conveniente o favorevole, se si eccettuino tre soli che sono italiani: Fiorentini, Montazio e Scudo”.
La sinfonia dei Vespri Siciliani è l’ultima composta da Verdi seguendo la struttura formale tipica delle ouverture rossiniane con un’introduzione lenta e un Allegro riconducibile alla forma-sonata, anche se i temi sono tratti dall’opera, alla quale risulta collegata. L’introduzione, Largo, si apre con un tono mesto, conferitole da un motivo ritmico, comunemente associato alla rappresentazione della morte, che Verdi aveva già usato nel Finale della Traviata e nel Miserere del Trovatore, e da un secondo elemento tematico, esposto dai clarinetti e dai fagotti, tratto dal canto dei monaci che intonano un salmo per i morituri. Un momento di serenità sembra aprirsi in questa introduzione nel Cantabile, tutto strutturato sul tema dell’aria di apertura di Hélene, ma le percussioni e gli archi con la figurazione ritmica della morte sembrano minacciare una sventura che giunge puntuale nell’Allegro agitato, il cui primo tema, introdotto da un rullo dei timpani in crescendo, è quello del massacro. Dopo il secondo tema, costruito su quello del duetto dell’atto terzo tra Henri e Monfort, parte il crescendo a cui segue una terza idea tematica, tratta dall’aria dell’addio di Hélène alla sua amata Sicilia. La ripresa è mutila del primo tema, che, però, appare in brevi cenni a disturbare la riesposizione del melodico secondo tema. L’ouverture si conclude con una travolgente coda, Prestissimo, nella quale Verdi ha rivelato tutta la sua maestria di strumentatore.
Durata: 9'
Giuseppe Verdi
Roncole di Busseto, 1813 - Milano, 1901La forza del destino, sinfonia
Allegro, Allegro agitato e presto, I° tempo, Andantino, Andante mosso, Presto come prima, Andante come prima, Allegro brillante
Dopo Un ballo in maschera sembrò che l’energia creativa avesse abbandonato Verdi, dal momento che si mostrava poco interessato a comporre altre opere, come si evince da una lettera a Piave:
“Ora sono completamente paesano. Spero di aver dato un addio alle muse e desidero non mi venga la tentazione di prendere la penna di nuovo”.
Intanto, contrariamente alle sue intenzioni, cominciava a profilarsi un suo ritorno al teatro. Mentre si trovava a Torino per convincere Cavour ad accettare le sue dimissioni dal Parlamento, Giuseppina Strepponi ricevette dall’amico Mauro Corticelli, segretario della celebre attrice Adelaide Ristori, impegnata in una tournée in Russia, una lettera nella quale ve ne era acclusa un’altra indirizzata a Verdi dal cantante Tamberlick. In entrambe vi era la richiesta se il compositore fosse disposto a considerare la possibilità di scrivere un’opera per il Teatro Imperiale di Pietroburgo per la stagione invernale 1861-62. La proposta non dispiacque a Giuseppina che, allettata dall’idea di trascorrere l’inverno lontana da Sant’Agata e in una delle più belle capitali europee, manifestò la sua fiducia nel poter convincere il maestro in una lettera a Corticelli, nella quale scrisse:
“Non riuscendo con l’eloquenza, metterò in opera un mezzo che, a quanto mi viene assicurato, riesce anche alle frontiere del Paradiso coll’illustrissimo San Pietro, cioè: Insistere, seccare, finché si ottenga”.
La sua fiducia non fu delusa perché Verdi, nel quale non si era sopita del tutto la voglia di cimentarsi nella composizione di una nuova opera, fini per capitolare e propose il Ruy Blas di Victor Hugo pensando che la sua rappresentazione sarebbe stata fattibile tenendo conto della liberalità e della modernità dello zar Alessandro II, ma la censura oppose il suo veto senza concedere possibilità di modifiche, essendo i lavori dello scrittore francese considerati ancora pericolosi. L’avventura a Pietroburgo sembrava finita prima di cominciare, come si evince da una lettera del compositore, il quale, tuttavia, lasciò una piccola speranza proponendo un incontro con Tamberlick. L’incontro avvenne a Torino con il fratello del tenore, Achille, e non fu facile trovare un nuovo soggetto, la cui scelta, alla fine, ricadde su Don Alvaro, o La Fuerza del Sino di Angel de Saavedra, duca di Rivas che, rappresentato nel 1835 a Madrid, dove aveva suscitato scandalo, era stato tradotto nel 1850 in italiano da F. Sanseverino. Composta su libretto di Francesco Maria Piave, La forza del destino fu rappresentata al Teatro Imperiale di Pietroburgo, il 10 novembre 1862 con un esito che deluse le aspettative del compositore il quale rimase poco soddisfatto sebbene fosse stato chiamato in scena molte volte e avesse ricevuto l’onorificenza dell’Ordine di San Stanislao. La critica, a eccezione del «Journal des St. Petersbourg», non fu affatto benevola attaccando fra l’altro la lunghezza dell’opera. Solo la «Gazzetta Musicale», voce discordante, attribuì l’esito deludente ai cultori della musica tedesca e a quelli della scuola nazionale russa. A prescindere dai giudizi della critica, l’opera sarebbe stata, comunque, rielaborata da Verdi, insoddisfatto soprattutto del finale, nel quale, nella versione del 1862, morivano Don Alvaro, Don Carlos e Leonora, per La Scala dove fu rappresentata il 27 febbraio 1869. In quest’occasione, oltre ad alcune modifiche, delle quali le più rilevanti riguardarono la scena del duello tra don Carlos e Don Alvaro nel terzo atto e il finale, Verdi sostituì il breve preludio, che, aperto dalle tre ottave esposte dai fiati, prosegue con il trascinante tema del destino, con quello del perdono e con quello della preghiera di Leonora con l’attuale sinfonia, nella quale il compositore aggiunse altri temi salienti sviluppati in una struttura più coerente grazie alla quale questa pagina ha una sua vita anche nel repertorio sinfonico.
Durata: 8'
Giuseppe Martucci
Capua 1856 - Napoli 1909Notturno n.1 op. 70 versione per orchestra
Moderato
Durata: 8'
La canzone dei ricordi, versione per voce e orchestra dell'op. 68b
1. No, svaniti non sono i sogni (Dolce ed espressivo)
2. Cantava il ruscello (Allegretto con moto)
3. Fior di ginestra (Andantino)
4. Sul mar la navicella (Allegretto con moto)
5. Un vago mormorio (Andante)
6. Al folto bosco (Andantino con moto)
7. No, svaniti non sono i sogni (Andantino)
Durata: 31'
Famoso pianista e direttore d’orchestra, Giuseppe Martucci, dopo aver ricevuto dal padre, un trombettista, le prime nozioni musicali, proseguì i suoi studi presso il Conservatorio di Napoli dove fu allievo di Beniamino Cesi per il pianoforte e di Paolo Serao per la composizione. Lasciato il Conservatorio nel 1871, intraprese una fortunata carriera di concertista a livello internazionale e nel 1880 ottenne la cattedra di pianoforte al Conservatorio di Napoli che mantenne fino al 1885 quando successe a Mancinelli nella direzione del Liceo Musicale di Bologna e nella carica di maestro di cappella in San Petronio. In seguito ottenne la direzione del Conservatorio di Napoli, ma non trascurò mai la sua attività di concertista e di direttore d’orchestra. La sua produzione può essere divisa in due fasi che testimoniano l’evoluzione del suo stile. Alla prima appartengono composizioni pianistiche che per stile seguono la tradizione salottiera tipica di Napoli, abbandonata, in seguito, a favore di un linguaggio che, ispirato a Schumann, Chopin, Liszt e Brahms, si sarebbe segnalato per una raffinata cantabilità e un’eleganza che lo avvicinava anche ai modelli francesi.
Un lavoro pianistico era, in origine, anche questo Notturno n. 1 op. 70, che, composto nel 1891 e orchestrato nel 1901, fu eseguito, per la prima volta, al Teatro Regio di Torino il 24 novembre 1901. Si tratta di una pagina di carattere intimistico e sentimentale con un tema di intenso lirismo che, nell’orchestrazione, si arricchisce di soluzioni timbriche e contrappuntistiche particolarmente affascinanti.
L’elemento sentimentale, riscontrato nel Notturno, informa anche il poemetto lirico La canzone dei ricordi che, originariamente composto da Martucci nel 1887 per canto e pianoforte e da lui orchestrato tra il mese di luglio e l’ottobre 1898 mentre si trovava a Castiglione dei Pepoli, fu eseguito per la prima volta presso il Stadtmusikverein di Dusseldorf, il 1° novembre 1900. Costituita da 7 liriche su testi di Rocco Pagliara, bibliotecario del Conservatorio di Napoli, oltreché amico intimo di Martucci, l’opera è dedicata al mezzosoprano Alice Barbi, che fu la prima cantante italiana da concerto, dal momento che aveva nel suo repertorio sia i Lieder tedeschi sia i lavori di compositori italiani, come Giovanni Sgambati e Marco Enrico Bossi, i quali, alla stregua di Martucci, si erano allontanati dalla moda imperante del melodramma. Il carattere intimistico di questa raccolta traspare già in No, svaniti non sono i sogni, una pagina d’intenso lirismo e di ripiegamento sul proprio io, mentre la primavera, evocata con una certa malinconia nella parte orchestrale del secondo brano, Cantava il ruscello, cede il posto a una forma d’inquietudine sia nella sezione centrale sia nell’esclamazione conclusiva o rei giorni veloci!, nella quale il rimpianto prende la forma di un instabile accordo di settima diminuita. Carattere triste e malinconico ha il terzo brano, Fior di ginestra, che nella parte conclusiva, in corrispondenza, dei versi Ed ora... ove sei tu? / Vedi, son sola! /e piango, e piango, e piango!, assume contorni drammatici, mentre andamento di barcarola, in un cullante 6/8, ha la quarta lirica, Sul mar la navicella, che si segnala per un tema venato di dolce lirismo. Una certa inquietudine attraversa sia il quinto espressivo brano, Un vago mormorio sia il sesto, Al folto bosco, intriso di cromatismi, che, però, dal verso O dolce notte trova degli accenti di carattere sognante grazie a un’espansione lirica che cresce a poco a poco d’intensità e di pathos. La raccolta si conclude con la ripresa di alcune parti del testo della prima lirica, No, svaniti non sono i sogni, realizzate, però, da Martucci in modo differente e con una scrittura quasi rassegnata, quasi a marcare una maturazione del sentimento iniziale che, ormai, ha definitivamente preso coscienza della drammatica fine dell’amore.
Riccardo Viagrande