Petrella/Verdi/ Čajkovskij
Massimiliano Stefanelli, direttore
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Programma
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Errico Petrella
Palermo 1813 - Genova 1877Sinfonia da "Jone, ossia L'ultimo giorno di Pompei" (trascrizione per orchestra di Massimiliano Stefanelli) - prima esecuzione in Italia
Durata: 9'
Errico Petrella
Palermo 1813 - Genova 1877Marcia funebre da "Jone, ossia L'ultimo giorno di Pompei" (trascrizione per orchestra di Massimiliano Stefanelli) - prima esecuzione in Italia
Coetaneo di Verdi e allievo a Napoli non solo di Nicola Zingarelli ma anche dei “maestrini” Michele Costa e Vincenzo Bellini, Errico Petrella manifestò sin da giovanissimo il suo talento musicale. All’età di 15 anni, quando era ancora studente, fece rappresentare, infatti, presso La Fenice di Napoli, un piccolo teatro della città partenopea, la sua commedia per musica Il diavolo color di rosa su libretto di Andrea Leone Tottola, ottenendo un vivo successo. Questa rappresentazione, però, costò a Petrella l’espulsione dal Conservatorio, dal momento che il giovane compositore aveva contravvenuto ai consigli di Zingarelli che gli aveva espressamente proibito di fare il suo debutto in teatro come compositore prima che avesse completato gli studi. Il successo di quest’opera diede, tuttavia, una certa notorietà a Petrella che, costretto a proseguire i suoi studi privatamente con Francesco Ruggi, riuscì a far rappresentare al Teatro Nuovo Il giorno delle nozze ovvero Pulcinella marito e non marito (1830), su libretto di Tottola, Lo scroccone (1834), una commedia buffa, di cui non si conosce l’autore del libretto, I pirati spagnuoli (1838) e Le miniere di Freinbergh (1843). Nonostante i buoni auspici di Giuseppe Festa, direttore d’orchestra del San Carlo, in questo momento, le porte del più importante teatro napoletano, all’epoca gestito da Domenico Barbaja, rimasero chiuse al compositore palermitano che nel 1843 si ritirò dalle scene per farvi ritorno nel 1851 sempre al Teatro Nuovo con Le precauzioni su libretto di Marco d’Arienzo. Fu quest’opera, che, essendo in lingua e con i recitativi, fu anche la sua prima a circolare fuori Napoli, a guadagnargli le attenzioni del San Carlo, dove nel 1852 fu rappresentato, dopo la prima avvenuta al Fondo, il suo dramma lirico, Elena di Tolosa, su libretto di Domenico Bolognese. Fu, allora, che il talento di Petrella attirò l’attenzione dell’editore Francesco Lucca, ansioso di contrapporre un compositore di punta per la sua casa editrice, a Verdi, le cui opere erano pubblicate da Ricordi. Se la fama conseguita da Petrella non è certo paragonabile a quella del Bussetano, non si può negare che le sue opere dagli anni 50’ dell’Ottocento fossero tra le più rappresentate. Tra queste va ricordata la sua prima opera seria, Marco Visconti su un libretto di Bolognese, tratto dal romanzo di Tommaso Grossi, che, rappresentata al San Carlo nel 1854, fu ripresa alla Scala per la quale Petrella, nel 1858, compose Jone ossia L’ultimo giorno di Pompei, su un libretto di Giovanni Peruzzini tratto da Gli ultimi giorni di Pompei di Edward Bulwer Lytton. Alla prima rappresentazione, alla Scala, il 26 gennaio 1858, con un cast di altissimo livello per l’epoca, formato dal tenore Carlo Negrini (Glauco), dal soprano Augusta Albertini (Jone) e dal baritono Giovanni Guicciardi (Arbace), Jone ottenne un grande successo testimoniato dalle 21 repliche. In questo periodo sembra che Petrella abbia conseguito un notevole successo alla Scala, in quanto figurerebbe al sesto posto in una speciale classifica dei compositori le cui opere godettero del maggior numero di rappresentazioni nel prestigioso teatro milanese. A guidare questa classifica era, con 666 recite delle sue opere, naturalmente Verdi, seguito da Donizetti (320), da Rossini (220), da Bellini (137) e da Meyerbeer (85). Jone, da parte sua, ebbe un successo che superò i confini italiani in quanto poté vantare riprese in tutto il mondo, eccezion fatta per la Francia e la Germania, fino al 1924, anno a cui risale l’ultimo allestimento a Palermo. Dopo l’allestimento di Palermo, l’opera cadde in una forma di oblio dal quale fu sottratta nel 1981 grazie a una sua ripresa a Caracas che è stata anche registrata. Alla fortuna presso il pubblico non è, però, corrisposto un atteggiamento benevolo da parte della critica che ha stroncato il libretto definendolo “truculento e drammatico” e l’orchestrazione liquidata, in modo un po’ troppo sbrigativo, come degna di un “maestro di banda provinciale”.
L’opera si apre con una sinfonia, scritta, dal punto di vista formale, secondo la struttura di quelle rossiniane con un’introduzione lenta (Andante sostenuto) a cui segue un Allegro, in forma-sonata, privo dello sviluppo, ma con il crescendo alla fine dell’esposizione. In essa sono utilizzati alcuni dei temi principali dell’opera a partire da quello della celebre marcia funebre all’inizio dell’Andante sostenuto che cede il posto al bel tema della cabaletta Oh, perdonami! Tua schiava del duetto tra Arbace e Jone del quarto atto, che qui assume una forma eterea perché presentato dai violini nel registro acuto. I due temi dell’Allegro sono tratti rispettivamente dal finale dell’opera (Se a noi la sorte - lo vieta in vita / congiunti in morte - saremo almen!) e dalla stretta del Finale del primo atto (Non lusingarti).
Tratta dal quarto atto è la celebre marcia funebre, entrata stabilmente nel repertorio delle bande che la eseguono in occasione di funerali o durante il periodo della Settimana Santa.
Durata: 10'
Giuseppe Verdi
Roncole di Busseto, 1813 - Milano, 1901Aida, sinfonia
Dopo la première parigina del Don Carlos Camille Du Locle era intenzionato a continuare la collaborazione con Verdi che sembrava, però, poco convinto nonostante l’interesse con cui leggeva i numerosi drammi che gli venivano sottoposti. D’altra parte, questo fu un periodo triste per il compositore, colpito dalla morte del padre e del suocero e benefattore Antonio Barezzi e dallo stato vegetativo in cui era piombato Piave in seguito a un ictus. Tra gli autori che leggeva sembrava molto interessato a Victorien Sardou del quale esaminò alcuni testi teatrali mandatigli da Du Locle dopo una visita a Sant’Agata. Intanto nel mese di novembre del 1869 il Kedivè d’Egitto, in occasione dell’apertura del canale di Suez, decise di far costruire un teatro nuovo e chiese la composizione di un’ode celebrativa a Verdi che rifiutò suggerendo la rappresentazione di Rigoletto con la direzione di Muzio. Il Kedivè, da parte sua, non abbandonò la speranza di avere una sua composizione nuova e ricorse all’aiuto dell’egittologo Auguste Mariette che propose un soggetto egizio. Non fu facile, tuttavia, convincere Verdi ancora alla ricerca di un soggetto per l’Opèra-Comique e sotto pressione da parte di Du Locle il quale, convinto molto più di Mariette che solo Verdi fosse il compositore giusto, lo tempestò di lettere proponendo condizioni che si facevano sempre più allettanti sia dal punto di vista economico che tecnico. Egli era libero, infatti, di fare tutte le prove che voleva e in qualsiasi luogo e che della supervisione al Cairo si sarebbe occupato personalmente Du Locle. Alla fine, Du Locle gli inviò una copia di El tanto por ciento, da lui richiesta tempo prima, allegando il programma di Mariette e una sua lettera nella quale, fra l’altro, l’egittologo scriveva che di fronte alla sua ostinazione avrebbero incaricato qualcun altro e probabilmente Wagner. Questa lettera raggiunse il suo scopo, in quanto Verdi, respingendo il dramma spagnolo, scrisse: “Ho letto il programma egiziano. È ben fatto; è splendido di mise en scène, e vi sono due o tre situazioni, se non nuovissime, certamente molto belle. Ma chi l’ha fatto? Vi è là dentro una mano molto esperta abituata a fare, e che conosce molto bene il teatro. Sentiremo ora le condizioni pecuniarie dell’Egitto, e poi decideremo”.
A questa lettera, per portare a compimento la sua opera di persuasione, Du Locle rispose che alla stesura del testo avevano lavorato Mariette e il Viceré creando un equivoco sulla sua paternità. Finalmente Verdi accettò dal momento che il Kedivè non oppose alcuna obiezione alle sue richieste e poté avvalersi della presenza di Du Locle a Sant’Agata per la stesura del libretto in prosa francese alla quale egli stesso partecipò attivamente. Nel mese di agosto l’opera, sul libretto realizzato da Antonio Ghislanzoni, era pronta ma la première dovette essere ritardata in quanto le scene e i costumi si trovavano nei magazzini dell’Opèra in una Parigi sotto assedio dei Prussiani. Il teatro, allora, fu inaugurato con Rigoletto nel 1869 e soltanto il 24 dicembre 1871 Aida debuttò con strepitoso successo al Teatro Khediviale del Cairo diretta da Giovanni Bottesini. Per la prima rappresentazione italiana, avvenuta alla Scala l’8 febbraio del 1872, Verdi, probabilmente su proposta di Ricordi, compose, in sostituzione del preludio, una sinfonia, che, però, dopo una prova diretta da Franco Faccio, non fece eseguire perché, come egli scrisse in una lettera al direttore d’orchestra Emilio Usiglio: “l’orchestra era buona, pronta, ed ubbidiente, ed il pezzo poteva riescire a buon porto se la costruzione ne fosse stata solida. Ma l’eccellenza dell’orchestra non valse a far meglio sortire la pretenziosa insulsaggine di questa sinfonia”.
Eseguita, per la prima volta in concerto da Toscanini con la NBC Symphony Orchestra il 30 marzo 1940 e in Italia da Bernardino Molinari il 4 giugno dello stesso anno alla presenza di Mussolini in occasione dell’inaugurazione di una mostra verdiana nella Villa della Farnesina a Roma, la sinfonia è stata incisa in tempi più recenti prima da John Elliot Gardiner e, poi, da Riccardo Chailly. Come affermato da Budden, la sinfonia “sboccia dal preludio originale”, distaccandosene all’ultima cadenza, e presenta, nella parte iniziale, due temi particolarmente significativi, quello di Aida che si segnala per la sua scrittura cromatica, e quello dei sacerdoti, che, usato nel secondo atto per il coro Della vittoria, diventa assoluto protagonista nella scena del giudizio. In questa sinfonia pot-pourri si ascoltano, poi, anche in nuove vesti orchestrali, altri temi tra cui quello di Numi pietà, del terzetto del primo atto e del coro dei sacerdoti nella forma in cui ricorre nel finale del secondo atto, ma qui strumentato con i fagotti, i violoncelli e i contrabbassi.
Durata: 13'
Pëtr Il'ič Čajkovskij
Votkinsk, 1840 - San Pietroburgo, 1893Sinfonia n. 5 in mi minore op. 64
Andante, Allegro con anima
Andante cantabile con alcuna licenza, Moderato con anima, Tempo I, Andante mosso, Allegro non troppo, Tempo I
Valse (Allegro moderato)
Finale (Andante maestoso, Allegro vivace, Molto vivace, Moderato assai e molto maestoso)
Composta tra il 30 maggio e il 26 agosto 1888 a distanza di undici anni dalla Quarta, la Quinta sinfonia di Čajkovskij costituisce il secondo atto della cosiddetta trilogia del destino e si pone in relazione con la precedente che ne rappresenta il primo e con la Sesta, la celebre Patetica, che corrisponde a quello conclusivo, il terzo. Tema conduttore delle tre sinfonie è il destino che incombe spesso sulle vicende umane con esperienze drammatiche di cui fu protagonista, suo malgrado, lo stesso compositore quando si trovò a dover affrontare la grave crisi matrimoniale, conclusasi con la separazione dalla giovane e innamoratissima moglie Antonina Ivanovna Miljakova, o quando fu sconvolto dal dolore per la morte, nel 1881, dell’amico fraterno Nikolaj Rubinštejn, al quale dedicò il celebre Trio con pianoforte in la minore, op. 50. Nemmeno la sicurezza economica raggiunta grazie a un vitalizio assegnatogli dallo zar era valsa a restituire serenità al suo animo. Čajkovskij, che aveva composto la Quarta sinfonia dopo la crisi matrimoniale, nella Quinta, espresse in una musica caratterizzata da accenti di sublime e commosso lirismo rispettivamente il dolore per la perdita dell’amico e il suo crescente disagio esistenziale. Dedicata a Theodor Avé-Lallemant, musicista influente molto vicino alla Società Filarmonica di Amburgo ed eseguita, con un’ottima accoglienza del pubblico, ma non della critica, sotto la direzione dell’autore per la prima volta a San Pietroburgo il 17 novembre 1888, la Sinfonia n. 5 segue un programma interiore, che il compositore negò ufficialmente di avere utilizzato, quando ne parlò con il Granduca Konstantin Konstantinovič. Ciò, tuttavia, appare in contrasto con quanto si può leggere in un'annotazione diaristica ritrovata in seguito tra gli abbozzi: “Programma del primo movimento: Introduzione. Intera sottomissione al Destino o, il che è lo stesso, agli imperscrutabili disegni della Provvidenza”.
Non si conoscono le ragioni profonde che indussero Čajkovskij a non rendere esplicito il contenuto del programma che, in realtà, sembra contraddetto almeno in apparenza dalla musica e in particolar modo dal fatto che il tema iniziale, con il quale è rappresentato il Destino, inizialmente esposto in minore, si evolve positivamente nel Finale in maggiore. È molto probabile che Čajkovskij, al di là degli aspetti puramente extramusicali e contenutistici, abbia seguito un percorso musicale di tipo classicista.
Il primo movimento, in forma-sonata, si apre con un Andante che realizza perfettamente le parole del programma grazie al celeberrimo tema del Destino, esposto dai clarinetti nel registro grave, la cui struttura mostra un’evidente origine russa soprattutto nel disegno discendente. L’atmosfera funerea di questo esordio sembra modificata nell’Allegro con anima, nel quale, secondo il programma già citato, il compositore cercò di rappresentare Mormorii, dubbi, lamenti, rimproveri contro XXX (nel testo sono indicate tre croci). Ciò si realizza nella prima idea tematica dove il tema del destino è variato con disegni ascendenti che intendono mostrare una forma di reazione alla sua inesorabilità, ma una seconda idea tematica dolente, che ricorda lontanamente la seconda frase del tema dello Scherzo della Quinta di Beethoven, considerata anch’essa sinfonia del destino, riconduce l’ascoltatore alla situazione iniziale. Tutta l’esposizione di questo primo movimento si snoda dialetticamente attraverso il contrasto tra il destino e i timidi tentativi di opporsi a esso che si materializzano in brevi episodi più gai. Questo contrasto trova la sua più compiuta espressione nello sviluppo dove si fronteggiano il motivo gaio, già esposto nella sezione Un pochettino più animato, e il primo tema. È possibile trovare la pace nella fede? Questo è l’interrogativo che il compositore si pone nel secondo movimento Andante cantabile, con alcuna licenza, come si evince anche dalla nota diaristica in cui si legge: Devo gettarmi nella fede??? Un programma superbo, se solo fossi capace di realizzarlo. La grande libertà agogica e ritmica, che aveva contraddistinto il primo movimento, caratterizza anche questo Andante in cui il compositore cerca nella fede, alla quale non riesce o non sa aggrapparsi, una ragione di vita destinata a rivelarsi illusoria. Se nella prima sezione del movimento la fede sembra garantire un momento di serenità, nella seconda l’irruzione del tema del destino, declamato con forza dagli ottoni, ne sancisce lo scacco. Per quanto illusoria, la possibilità di una fuga dal destino incombente e terribile sembra l’unica ancora di salvezza per il compositore che nel terzo movimento, Valse (Allegro moderato), si affida alla danza, ma ecco che di nuovo il tema del destino, esposto dai clarinetti e dai fagotti, si insinua e turba l’apparente serenità del valzer che, poco incline al sorriso, tende a ricoprirsi di un sia pur tenue velo di tristezza. Quest’apparente serenità, nel quarto movimento, viene definitivamente sopraffatta dal crudele destino con il suo tema che apre e chiude questo Finale dai toni drammatici e, al tempo stesso, rabbiosi. Il doloroso Andante maestoso introduttivo è dominato dal tema del destino che in un drammatico crescendo finisce per coinvolgere tutte le sezioni dell’orchestra, dagli archi ai legni e agli ottoni, assumendo ora toni dolenti con i primi, ora drammatici con gli ultimi. Nel primo tema del successivo Allegro vivace al dramma si unisce la rabbia ben espressa dai violenti accordi strappati degli archi, la cui “ferocia” sembra mitigata dal dolce secondo tema affidato ai legni in un continuo contrasto che caratterizza tutta la sinfonia e conduce alla definitiva vittoria del destino. Tale vittoria è sancita dalla travolgente stretta finale, dove appare il primo tema del primo movimento che, privo di ogni maschera seduttrice e ingannatrice, rivela la sua forza tragica, nonostante il tema del destino avesse precedentemente assunto un’insolita veste in maggiore che sembrava, in modo ingannevole, far intravedere all’ascoltatore una sua possibile sconfitta.
Riccardo Viagrande
Durata: 50'