Saint-Saëns/ Bartók/Enescu
GAETANO D’ESPINOSA direttore
LOUIS LORTIE pianoforte
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Luogo
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Politeama Garibaldi - Palermo
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Giorno
ora
Durata
Prezzo
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Giorno
Domenica 26 Aprile 2026
Ore
17,30
Durata
80min.
Prezzi
- €
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Programma
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Camille Saint-Saëns
Parigi, 1835 - Algeri, 1921Concerto n. 2 in sol minore per pianoforte e orchestra op. 22
Andante sostenuto
Allegro scherzando
Presto
Composto in appena 17 giorni nella primavera del 1868, il Secondo concerto per pianoforte e orchestra è certamente il più famoso lavoro in questo genere musicale di Saint-Saëns che lo scrisse su commissione di Anton Rubinstein. In quel periodo, il grande pianista e direttore d’orchestra russo si trovava, infatti, a Parigi per una serie di 8 concerti nei quali avrebbe dovuto figurare come pianista con Saint-Saëns sul podio e, volendo fare il suo debutto nella capitale francese anche come direttore d’orchestra, chiese di comporre un Concerto per pianoforte e orchestra al compositore francese. Questi, visti i tempi strettissimi, avrebbe voluto mettere in programma il suo Primo concerto, ma alla fine decise di eseguire il Secondo concerto che nel frattempo compose in brevissimo tempo. La sua interpretazione in qualità di solista, alla prima esecuzione avvenuta il 13 maggio 1868 a Parigi, non fu, tuttavia, tra le migliori, dal momento che il compositore francese non aveva avuto molto tempo per studiare bene la parte pianistica. Nonostante questo contrattempo, il Concerto fu apprezzato da Liszt il quale, dopo averne ricevuto una copia, scrisse a Saint-Saëns in una lettera del 19 luglio 1869: «La forma è nuova e felicissima. L’interesse dei tre pezzi va in crescendo». Liszt aveva compreso la novità del Concerto che, secondo una celebre affermazione del pianista polacco Zygmunt Stojowski, inizia nel nome di Bach e si conclude con quello di Offenbach.
Il primo movimento, Andante sostenuto, la cui struttura segue in modo piuttosto libero la forma-sonata, si apre in modo insolito con una pagina pianistica ad libitum, senza indicazioni di tempo, dalla scrittura toccatistica che richiama lo stile di Bach. Di carattere malinconico è il primo tema, per il quale Saint-Saëns utilizzò una melodia composta dal suo allievo Gabriel Fauré per un suo mottetto, Tantum ergo, lasciato incompiuto da quest’ultimo. Innovativa e insolita è anche la scelta di introdurre come secondo movimento uno Scherzo in sostituzione del tradizionale Adagio. Aperto da un tema ritmico dei timpani tutto giocato sulla dominante e la tonica di mi bemolle maggiore, il secondo movimento, Allegro scherzando, formalmente un Rondò, è una pagina brillante nella quale appare tutto il senso dell’umorismo di Saint-Saëns sia nella parte solistica che, marcata con l’indicazione leggieramente, giunge a imitare in alcuni passi gli iniziali colpi di timpani sia in quella orchestrale. Altrettanto brillante è il terzo movimento, Presto, una sfrenata Tarantella nella quale Saint-Saëns sembra giocare umoristicamente sia con la sua musica grazie a delle rielaborazioni spiritose di elementi tematici dei tempi precedenti sia con la tradizione, dal momento che non mancano richiami, in alcuni punti, al brillante Saltarello che conclude la Sinfonia Italiana di Mendelssohn.
Durata: 24'
Béla Bartók
Nagyszentmiklós, 1881 - New York, 1945Il mandarino meraviglioso, suite da concerto op. 19 sz 73
Allegro
Maestoso
Tempo di valse
“Fin dall’inizio la pantomima ha destato una vasta opposizione. Lo sdegno esploso fra il pubblico e la disgustosa trama hanno fatto subito svuotare le file anteriori prima della fine. Non appena il sipario è calato, è seguita una rapida ritirata... La prima di questa bartókiana commedia di prostitute e ruffiani con il loro seguito di baccano orchestrale sarebbe terminata in un calmo e silenzioso rigetto se piccoli gruppi sparsi non avessero tentato di trasformare l’incontestabile fallimento in un successo con applausi e chiamate alla ribalta dell’autore. Ciò ha sollevato l’indignazione del pubblico che fuggiva... la folla infuriata è tornata indietro in sala e non riuscendo a coprire gli applausi con i fischi, centinaia di grida sono risuonate per parecchi minuti: vergogna! volgarità! scandalo! subissando gli applausi. Il chiasso è aumentato di nuovo quando a dispetto di ogni evidenza il sig. Bartók è salito sulla scena; era proprio il momento di calare il sipario, cosa che fu fatta con il plauso della maggioranza”.
Ciò è quanto fu scritto il 29 novembre 1926 sul giornale «Kölner Stadt-Anzeiger», due giorni dopo la prima del balletto-pantomima in un atto, Il mandarino meraviglioso, avvenuta allo Stadttheater di Colonia con la regia di Hans Strohbach. Quest’accoglienza niente affatto benevola decretò la scomparsa, dai cartelloni dei principali teatri, del balletto che rivide le scene nella forma originale nel 1936, ben dieci anni dopo, al teatro Colón di Buenos Aires con la coreografia di Ciaplinski. Il successo dell’opera fu decretato, tuttavia, in Italia, quando nel 1942 il sovrintendente della Scala di Milano Carlo Gatti chiese al coreografo e ballerino Aurelio Milloss consigli per rappresentare qualche opera di autori contemporanei. Milloss, che aveva conosciuto Bartók a Budapest tra il 1936 e il 1937 ed era rimasto entusiasta dell’opera, propose di allestire questo balletto convinto del fatto che l’insuccesso era stato determinato dalla presunta immoralità del soggetto e dal sottotitolo che definiva il lavoro come una pantomima, mentre la musica realizzata dal suo autore era adatta a un vero e proprio dramma coreografico. Nonostante la disapprovazione dei Tedeschi, la rappresentazione dell’opera fu autorizzata da Mussolini suscitando l’entusiasmo di Milloss che affermò: “per la prima volta avevo potuto applicare le mie idee anche sulla coreografia. In più, questo accadeva per l’opera di un compositore, contemporaneo e mio connazionale, che era proibita nell’Ungheria semi-nazista di allora. E alla Scala!” (A. Milloss, Il mandarino meraviglioso, in AA. VV., Teatro contemporaneo a c. di Mario Verdone, app. 7, Roma, Lucarini, 1989, p. 36)
La prima italiana de Il mandarino meraviglioso, rappresentato, in forma di dramma coreografico, alla Scala il 12 ottobre 1942, fu un vero successo grazie anche alla presenza di grandi artisti. Oltre a Milloss, che fu anche interprete del ruolo principale, parteciparono, infatti, alla rappresentazione Attilia Radice in quello della ragazza, il direttore d’orchestra János Ferencsik e lo scenografo futurista Enrico Prampolini. Da quella storica serata Il mandarino meraviglioso avrebbe raccolto successi e apprezzamenti di critica e di pubblico in molti altri teatri mondiali.
Bartók si era deciso a comporre quest’opera perché affascinato dalla lettura del testo di Menyhért Lengyel, pubblicato sulla rivista letteraria ungherese «Nyugat», la cui trama era stata definita dal compositore, in un’intervista rilasciata a un’altra rivista «Színházi Elet» («Vita teatrale»), di rimarchevole bellezza. Aveva, poi, ottenuto il permesso di utilizzare la trama quando erano venute meno le condizioni per le quali molto probabilmente Lengyel aveva scritto il testo. Bartók, inoltre, nel mese di giugno del 1918 aveva incontrato Lengyel con il quale aveva stabilito un accordo economico sullo sfruttamento dei diritti d’autore in base al quale il compositore si sarebbe assicurato quelli sulla musica, mentre all’autore sarebbe stata corrisposta una percentuale pari a un terzo della somma per la pubblicazione del testo insieme alla partitura. Bartók si mise subito al lavoro e, in meno di un anno, dal mese di ottobre 1918 a maggio 1919, aveva già ultimato lo spartito pianistico che il 5 luglio dello stesso anno eseguì al pianoforte davanti a un ristretto pubblico di cui faceva parte anche Lengyel, il quale annotò sul suo diario: “L’altro giorno Béla Bartók ha suonato per noi al pianoforte la musica del Mandarino ... bellissima musica, incomparabile talento!”
Il fervore creativo di Bartók sembrò subire una battuta d’arresto nel momento del lavoro di strumentazione soprattutto per i continui rinvii del Teatro dell’Opera di Budapest che nascondevano l’opposizione degli ambienti conservatori. Per queste ragioni Bartók aveva maturato un certo scetticismo circa la possibilità di vedere l’opera rappresentata a teatro e, per recuperare il lavoro già fatto, pensò di trarne una suite per preservarne la musica dai giudizi non certo lusinghieri rivolti nei confronti del soggetto. La suddetta fredda accoglienza del pubblico e il rifiuto di molti altri teatri di riprendere l’opera dal contenuto, a giudizio di molti, scandaloso confermarono in questo proposito il compositore il quale decise di dare corso al precedente progetto di trarre una suite che, pubblicata nel 1927 con il sottotitolo Musica dalla pantomima dello stesso titolo, fu eseguita per la prima volta il 15 ottobre 1928 presso la Società Filarmonica di Budapest sotto la direzione di Ernö Dohnanyi ottenendo un successo tale da risvegliare l’interesse del pubblico e degli ambienti musicali per la pantomima. Il direttore dell’Opera di Budapest Miklós Radnai aveva addirittura pensato di inserire la pantomima nel cartellone della stagione successiva senza, però, dare corso al progetto iniziale. Fallì, ancora una volta, per l’opposizione degli ambienti conservatori che pretesero alcune rilevanti modifiche al soggetto, una programmata ripresa dell’opera per il 25 marzo 1831 in occasione del cinquantesimo compleanno del compositore. Nonostante le prove fossero già iniziate, Bartók stesso non tollerò, infatti, le modifiche all’opera che, alla fine, dopo un nuovo rinvio, fu cancellata dal cartellone.
Ma, in definitiva, in cosa consiste questa trama tanto scandalosa da suscitare reazioni così violente? Lo stesso Bartók ci fornisce un riassunto tanto essenziale, quanto efficace: “In un covo di delinquenti, tre furfanti costringono una ragazza bella e giovane ad adescare dei passanti per poi derubarli dei loro averi. Il primo è un vecchio laido, il secondo un giovane senza soldi, ma il terzo è un sano cinese. Quest’ultimo è un buon colpo, e la ragazza lo intrattiene con una danza, risvegliando il desiderio del mandarino fino a farlo pulsare appassionatamente. La ragazza indietreggia terrorizzata. I delinquenti lo attaccano, lo derubano dei soldi, lo soffocano con delle coperte, lo colpiscono con una lama ma invano: non possono sopraffare il mandarino, gli occhi del quale guardano la ragazza con bramosia e passione. La sensibilità femminile viene in aiuto della ragazza che appaga il desiderio del mandarino, il quale cade a terra senza vita”.
Rispetto alla partitura della pantomima, quella della suite presenta poche modifiche che riguardano, soprattutto, l’ultima scena, sostituita da una breve chiusa di appena quattordici misure e il coro a quattro voci a bocca chiusa che appare sempre nella scena finale del lavoro teatrale. La musica presenta un forte carattere descrittivo, evidente già nel primo brano della suite, un Allegro, in cui viene delineata con precisione pittorica l’ambientazione della pantomima che, al di là del carattere scandaloso, rappresenta un simbolo della disumana società moderna, nella quale non c’è più posto per i sentimenti. La confusione morale è ben simboleggiata da una musica furiosa che si apre con una scala di sol maggiore affidata ai secondi violini, mentre l’ingresso dei legni rappresenta il frastuono di una città affollata e, appunto, disumana, ma simboleggia anche i tre teppisti perfettamente inseriti nel contesto della città, vera protagonista dell’intero balletto. Non a caso il tema della seduzione trae il suo materiale melodico dagli elementi che in precedenza avevano identificato i teppisti e per estensione il caos morale della città moderna. Gli adescamenti del vecchio laido e del giovane squattrinato, da parte della giovane, vengono realizzati con due danze molto simili, mentre il terzo, quello del Mandarino, con una danza più lunga e molto più varia dal punto di vista ritmico. Il secondo brano, Maestoso, descrive l’ingresso sulla scena del Mandarino che produce un moto di terrore sia nell’animo dei delinquenti sia in quello della ragazza la quale, dapprima, scappa terrorizzata verso la parete opposta e, poi, dopo qualche tentennamento, incomincia una danza erotica (Tempo di valse) estremamente sensuale, caratterizzata da una concitata agitazione. La musica descrive perfettamente la trama del balletto grazie anche a un’orchestrazione estremamente varia e piena che si basa su un organico formato da un ottavino, tre flauti, tre oboi, un corno inglese, tre clarinetti, un clarinetto basso, tre fagotti, 2 controfagotti, quattro corni, tre trombe, tre tromboni, il basso tuba, timpani, tamburo, piatti, grancassa, triangolo, gong, xilofono, celesta, arpa, pianoforte, organo e archi. Da un punto di vista formale la suite, infine, presenta una forte coesione costituita dal ritorno degli stessi elementi melodici, variati ora in senso timbrico ora in senso ritmico e che sembrano imputare alla città moderna la causa del degrado morale a cui il compositore stava assistendo nel periodo tra le due guerre. Gli elementi tematici dei tre delinquenti traggono, infatti, il loro materiale melodico dalle strutture musicali che individuano la città e, al tempo stesso, alimentano in modo sinistro quelli che appaiono nei momenti in cui avvengono gli adescamenti.
Durata: 19'
George Enescu
Liveni 1881 - Parigi 1955Rapsodia rumena n. 1 in la maggiore op. 11
Modéré. Posément. Plus vite. Très vif. Allègrement
Definito da Pablo Casals «il più grande fenomeno musicale dai tempi di Mozart» e da Yehudi Menuhin «una delle vere meraviglie del mondo», George Enescu rivelò, sin da bambino, le sue doti musicali e, soprattutto, la sua attitudine per la composizione, scrivendo, all’età di cinque anni, dopo aver preso delle lezioni da Mişu Zoller, un violinista dilettante, la sua prima opera per violino e pianoforte, Paese Romeno. Fu, però, grazie ai buoni auspici di Eduard Caudella, all’epoca direttore del Conservatorio di Iaşi, che Enescu poté intraprendere degli studi regolari presso il Conservatorio di Vienna, dove ebbe come maestri Robert Fuchs, per quanto riguarda la teoria, e Joseph Hellmesberger jr, per il violino, conseguendo il diploma nel 1893, all’età di 12 anni. In seguito si perfezionò a Parigi con André Gedalge, Jules Massenet e Gabriel Fauré, facendo il suo debutto come violinista nel 1900 ai Concerts Colonne. Nel 1903 costituì un trio insieme con Alfredo Casella e Louis Fournier e l’anno dopo un quartetto con Henri Casadesus, lo stesso Fournier e Fritz Schneider, esibendosi in tutta Europa. Durante la Prima Guerra Mondiale, tornò in Romania e nel primo dopoguerra diede un notevole contributo alla conoscenza, a livello internazionale, della scuola nazionale rumena. Nel 1923, in particolare, si esibì per la prima volta negli Stati Uniti, a Filadelfia, sotto la direzione di Leopold Stokowski ed ebbe tra i suoi allievi di violino Yehudi Menuhin, Yvonne Astruc, Ginette Neveu, Arthur Grumiaux, Christian Ferras e Uto Ughi. Musicista straordinario, capace di eccellere in tutti i campi nei quali si cimentava, Enescu fu protagonista di “imprese” rimaste leggendarie, come l’aver eseguito, in una sola serata, tutte le parti di un quartetto d’archi, da quella del violino a quella del violoncello. Si dice anche che sia riuscito a suonare a memoria, per una serie di 16 concerti, ben 48 sonate o ancora di essere in grado di eseguire, sempre a memoria, anche lavori particolarmente complessi dopo una semplice lettura. Come compositore si cimentò in tutti i generi dalla musica sinfonica e da camera al teatro musicale, al quale diede il suo contributo con un’opera, Oedipe, che ottenne uno straordinario successo alla prima rappresentazione nel 1936 e che è giudicata un autentico capolavoro.
In tutta la produzione di Enescu emerge con forza il suo profondo legame con la Romania, evidente anche in questa Rapsodia rumena n. 1 in la maggiore op. 11, composta nel 1901, dopo il periodo di perfezionamento trascorso a Parigi, ed eseguita, per la prima volta, all’Ateneo Romeno di Bucarest, il 23 febbraio 1903, sotto la direzione del compositore. In questo lavoro, ispirato alle Rapsodie ungheresi di Franz Liszt, Enescu si servì di melodie popolari rumene a partire da quella del canto Am un leu şi vreu să-l beu (Ho un soldo e vorrei spenderlo per un drink), esposta dal clarinetto e ripresa dall’oboe. Introdotta da un nuovo ritmo, appare la seconda citazione, costituita dalla hora “lui Dobrică" (di Dobrica), una danza popolare eseguita in cerchio solitamente in occasioni di matrimoni e feste. Seguono le citazioni di una sârbă, un’altra danza in ritmo puntato che si esegue in cerchio, del canto popolare di carattere malinconico Mugur-Mugurel (Germoglio, piccolo germoglio) e di un altro canto Ciocârlia (L'allodola), che si segnala per la raffinata orchestrazione con i fiati che imitano i versi degli uccelli. Di grande effetto è, infine, il brillante finale.
Riccardo Viagrande
Durata: 13'