Respighi/Dvořák/ Ghedini

Donato Renzetti, direttore

Miriam Prandi, violoncello

  • Luogo

  • Politeama Garibaldi

  • Giorno

    ora

    Durata

    Prezzo

     

  • Giorno

    Venerdì
    14 Marzo 2025

    Ore

    21,00

    Durata

    110min.

    Prezzi

    - €

    Calendario

  • Giorno

    Sabato
    15 Marzo 2025

    Ore

    17,30

    Durata

    110min.

    Prezzi

    - €

    Calendario

  • Programma

  • Ottorino Respighi
    Bologna 1879 - Roma 1936

    Tre Corali di Bach

    Nun komm, der Heiden Heiland (Ora vieni, salvatore delle genti)

    Meine Seele erhebt den Herren (L’anima mia magnifica il Signore)

    Wachet auf, ruft uns die Stimme (Destatevi, ci chiama una voce)

     

    Il confronto con la grande tradizione strumentale del Seicento e del Settecento fu un aspetto fondamentale della poetica di Respighi, il quale cercò di recuperarla secondo tre modalità diverse, ben delineate da Daniele Gambaro (Ottorino Respighi, Varese, Zecchini, 2011, p. 165): «le trascrizioni per pianoforte, le ricreazioni strumentali e gli adattamenti concertistici».  

    Se le trascrizioni di alcune opere organistiche, a partire da quelle del 1917 di lavori di Frescobaldi (Passacaglia, Preludio e fuga in sol minore e Toccata e fuga in la minore), nella nuova versione pianistica di Respighi, mantengono la loro maestosità attraverso una scrittura piena con raddoppi e un uso del pedale ampio anche se, per la verità, non proprio filologicamente corretto, le orchestrazioni di alcuni lavori organistici di Bach, come il Preludio e fuga in Re maggiore, la Passacaglia in do minore e soprattutto i Tre corali (1930), in programma oggi, costituiscono, invece, tre mirabili incontri tra i due compositori. Quella di Respighi, infatti, non è una semplice trascrizione, ma una vera e propria riscrittura dal momento che i 3 famosi corali, Nun komm, der Heiden Heiland (Ora vieni, salvatore delle genti), Meine Seele erhebt den Herren (L’anima mia magnifica il Signore) e Wachet auf, ruft uns die Stimme (Destatevi, ci chiama una voce), di due dei quali (il primo e il terzo) era stata già realizzata una versione pianistica nel 1898 da Ferruccio Busoni, appaiono in una nuova veste. Nel primo corale, Nun komm, der Heiden Heiland, che Bach aveva composto tra il 1713 e il 1715 sulla melodia dell’antico inno latino Veni Redemptor gentiun, Respighi ha trasportato, innanzitutto, la tonalità dal sol minore originario a do minore e ha realizzato la raffinata scrittura contrappuntistica del brano dividendo gli archi, unici a essere utilizzati con la sola eccezione del fagotto che raddoppia i terzi violoncelli, in modo da far risaltare le singole voci creando così una pagina di grande suggestione e di carattere austero. Comico, quasi leggero, è, nell’orchestrazione di Respighi, il secondo corale, Meine Seele erhebt den Herren, composto da Bach sul tema del Magnificat, nel quale gli oboi e la tromba eseguono il tema con voce tremolante e comica, mentre ai clarinetti, al fagotto e agli archi sono affidate le parti in contrappunto in 6/8. Splendida è, infine, l’orchestrazione del corale Wachet auf, ruft uns die Stimme nel quale i contrappunti vengono eseguiti dagli archi, mentre il tema è affidato ai clarinetti e al fagotto ai quali si aggiungono progressivamente, prima, il primo corno, poi, tutti gli altri corni, il trombone tenore, il trombone basso e il controfagotto in una scrittura che nel finale marca una netta differenza tra la leggera parte degli archi e quella solenne e da registrazione organistica dei fiati.

    Durata: 12'

    Antonín Dvořák
    Nelahozeves 1841 - Praga 1904

    Concerto in si minore per violoncello e orchestra op. 104

    Allegro

    Quasi improvvisando: Adagio ma non troppo

    Finale

     

    “Perché mai non seppi che qualcuno avrebbe potuto comporre un concerto per violoncello come questo? Se solo lo avessi saputo, ne avrei composto uno tanto tempo fa”.

    Queste parole, espresse da Johannes Brahms, amico e mentore di Dvořák sul Concerto in si minore per violoncello e orchestra op. 104 di quest’ultimo, fanno chiaramente intendere quanto sia difficile portare a termine una composizione per violoncello solista, tanto che gli stessi studenti di Composizione dei Conservatori di musica sono dissuasi dal compiere tentativi del genere all’inizio dei loro studi. Per la verità, Dvořák, già nel 1865, sebbene fosse all’inizio della sua carriera, aveva cominciato a comporne uno in la maggiore. Il pezzo era stato scritto per Ludevít Peer, un musicista che egli conosceva molto bene in quanto entrambi suonavano nell’orchestra del Teatro Nazionale Ceco diretta da Bedřich Smetana. Egli aveva consegnato la partitura per violoncello con accompagnamento di pianoforte a Peer affinché fosse esaminata, ma nessuno dei due si era preoccupato di lavorare a essa. Questa partitura, rimasta allo stato di manoscritto, sarebbe stata recuperata nel 1925 a Würtemberg e pubblicata postuma nel 1929 dall’editore Breitkopf und Härtel. Dopo questo giovanile tentativo, nonostante altri musicisti avessero rivolto a Dvořák la richiesta, sempre da lui rifiutata, di scrivere un Concerto per violoncello e orchestra, sarebbero trascorsi circa 30 anni prima che il compositore capitolasse di fronte all’invito del grande violoncellista e suo amico Anuš Wihan. Fra il mese di novembre 1894 e il febbraio 1895, alla fine del suo secondo soggiorno americano, Dvořák compose, infatti, questo Concerto. Il rifiuto di comporne in precedenza uno era, forse, dipeso dalla sua convinzione che questo strumento dalla voce scura figurasse bene nel contesto dell’organico orchestrale, ma fosse totalmente insufficiente per ricoprire il ruolo del solista. Quando, tuttavia, nonostante le riserve di cui sopra, si era deciso a comporlo, egli stesso confessò, in una lettera a un amico, di essersi notevolmente sorpreso per questa sua decisione. Egli privilegiava, infatti, le note musicali medie e manifestava viva contrarietà, che, a volte, diventava vera e propria insofferenza per quelle nasali acute e per quelle sussurrate del registro grave. Questa convinzione venne progressivamente meno e la sua decisione appare più comprensibile in seguito a un fatto che merita di essere ricordato. Durante il periodo trascorso a New York come direttore del Conservatorio Nazionale, Dvořák aveva constatato che uno degli insegnanti del Conservatorio, Victor Herbert, da lui profondamente stimato, si era già cimentato con successo nella composizione del suo Secondo concerto per violoncello, dal cui ascolto, il 20 novembre 1894, il compositore ceco era rimasto particolarmente impressionato.

    Nonostante la prima spinta alla composizione di questo lavoro fosse venuta da Anuš Wihan, questi non ne fu il primo interprete alla prima esecuzione avvenuta a Londra il 19 marzo 1896, sotto la direzione dell’autore e con Leo Stern in qualità di solista. Erano sorte, infatti, delle divergenze tra il compositore e il violoncellista in merito all’introduzione di elementi meramente virtuosistici all’interno della partitura. All’intenzione di Anuš Wihan di introdurre una cadenza di natura virtuosistica, Dvořák aveva risposto con una lettera abbastanza formale, ma decisa, al suo editore Simrock:

    “Il Concerto deve essere eseguito così come è scritto, senza alcun cambiamento da parte di chicchessia, ivi compreso il mio amico Wihan, senza il mio consenso e nemmeno senza una cadenza che Wihan potrebbe aggiungere nel finale, all’ultimo momento […]. Gli ho detto in modo molto chiaro, il finale deve concludersi in modo progressivo, diminuendo - come un sospiro - con reminiscenze del primo e del secondo movimento - il solista si affievolisce fino al pianissimo poi si gonfia di nuovo - e le ultime misure sono puramente orchestrali, in modo che l’opera si conclude in un’atmosfera tempestosa. Questa è la mia idea e non saprei rinunciarvi”.

    Preso atto delle divergenze tra i due artisti, la Società Filarmonica di Londra aveva deciso allora di ingaggiare Leo Stern, suscitando un’altra reazione da parte del compositore che prontamente scrisse al segretario:

    “Mi dispiace d’informarvi del fatto che io non posso dirigere l’esecuzione del concerto per violoncello, dal momento che avevo promesso al mio amico Wihan che sarebbe stato lui che l’avrebbe suonato. Se voi inserite questo concerto nel programma, sappiate che io non verrò, ma mi piacerebbe venire in un’altra occasione”.

    Alla fine, assodata l’impossibilità di appianare i contrasti con Wihan, Dvořák, di fronte alle difficoltà che avevano messo in discussione l’esecuzione, capitolò accettando di ricevere a Praga Stern in vista proprio della première del Concerto. In realtà Dvořák, alla fine, fece una piccola modifica dal momento che nella Coda dell’ultimo movimento aggiunse, nella parte del primo violino e dei legni, il tema del primo dei suoi Quattro Lieder op. 82, particolarmente amato dall’attrice Josefina Kounicova, sua carissima amica, scomparsa proprio in quel periodo.  

    Il concerto di Dvořák, che fu l’ultimo tra quelli da lui composti per strumento solista, presenta una sua peculiarità, determinata dal fatto che si discosta dalla forma tradizionale del concerto per assumere quella di una sinfonia con violoncello obbligato. Nei tre movimenti, di cui si compone il Concerto, l’orchestra ha una funzione fondamentale nell’esposizione dei temi, ma non sovrasta il suono del violoncello. Tutto il Concerto è dominato dal fervore romantico presente già nel primo movimento, Allegro, dove assume particolare rilievo un perentorio e marziale, nei ritmi puntati, tema principale, marcato nella partitura con l’indicazione dinamica risoluto. L’incipit del primo movimento, in forma-sonata, è costituito da un’introduzione piuttosto lunga fatta dall’orchestra che fissa i temi e permette al solista di variarli in modo virtuosistico. Il perentorio primo tema è perorato dall’orchestra nella parte finale del movimento in una scrittura strumentale che ricorda da vicino l’esposizione del primo tema del primo movimento della Sinfonia “dal nuovo mondo”. Al movimento di apertura segue un Adagio altrettanto lungo dallo spiccato carattere pastorale e, al tempo stesso, tumultuoso, in cui l’ispirazione musicale è più evidente e, altresì, pervasa da un lirismo tipicamente romantico. Assume, quindi, particolare risalto l’intensa partecipazione drammatica del solista che dialoga con l’orchestra in una scrittura che ne esalta la cantabilità e si fonde perfettamente col controcanto degli strumenti dell’orchestra. Il terzo e ultimo movimento, pervaso da nostalgica inquietudine, è formalmente un rondò in cui la melodia diventa più appassionata e struggente fino a quando, in uno degli episodi, viene ripreso il tema del secondo movimento in modo lento e calmo, realizzando, così, lo schema ciclico già sperimentato nella Sinfonia “dal Nuovo Mondo”. Di grande effetto, infine, è la parte conclusiva.

    Durata: 42'

    Giorgio Federico Ghedini
    Cuneo 1892 - Nervi 1965

    Marinaresca e baccanale

    Molto sostenuto e ampio

    Baccanale: Presto

     

    Allievo, a Bologna, di Marco Enrico Bossi per quanto riguarda la composizione, Giorgio Federico Ghedini, nonostante vengano eseguiti pochi lavori della sua vastissima produzione, fu certamente una delle personalità più importanti del panorama musicale del Novecento, avendo svolto un'intensa attività non solo come compositore, ma anche come didatta. Ghedini annoverò, infatti, tra i suoi allievi musicisti illustri come Luciano Berio, Marcello e Claudio Abbado, Alberto Bruni Tedeschi, Fiorenzo Carpi, Carlo Pinelli e Liliana Renzi. Appassionato di musica antica, Ghedini non solo trascrisse e rielaborò lavori di numerosi autori del Rinascimento e del Barocco, ma si ispirò a essi anche nelle sue composizioni originali.

    Ghedini fu autore di una vastissima produzione che abbraccia tutti i generi dalla musica strumentale e teatrale a quella sacra, alle colonne sonore e alle trascrizioni e rielaborazioni di musiche antiche.

    Tra le composizioni sinfoniche spicca certamente il dittico Marinaresca e baccanale, composto nel 1933 e dedicato al famoso direttore d’orchestra Victor De Sabata, che ne diresse la prima esecuzione tre anni dopo, nel quale cercò di rendere, come da lui stesso affermato, «una trasformazione idealizzata di un quadro, di un susseguirsi di stati d’animo suggeriti da un’immagine base». In Marinaresca l’immagine è costituita da dei forzati incatenati in una galera, la cui situazione penosa traspare nelle prime battute con un tema di carattere drammatico presentato dagli archi gravi. Il moto ondoso del mare, invece, è evocato da un andamento di barcarola che, però, lascia il posto alla rappresentazione di una tempesta che si placa solo nel finale di questo primo brano. Ispirato a un frammento di Pindaro, è il successivo Baccanale, dove l’antico rito romano viene evocato con una scrittura frammentata che spesso si interrompe bruscamente.

    Durata: 19'

    Ottorino Respighi
    Bologna 1879 - Roma 1936

    Pini di Roma

    I pini di villa Borghese - Allegretto vivace. Vivace

    I pini presso una catacomba - Lento

    I pini del Gianicolo - Lento

    I pini della Via Appia - Tempo di marcia

     

     

    Della vasta produzione di Respighi sono molto noti, perché entrati pienamente nel repertorio sinfonico, i poemi sinfonici dei quali sono famosi quelli che costituiscono la cosiddetta trilogia romana. Fanno parte della trilogia Fontane di Roma, Pini di Roma e Feste romane, che, se, da una parte, sembrano riallacciarsi alla grande tradizione ottocentesca rappresentata da Liszt e Richard Strauss, dall’altra la contraddicono per il fatto che non si fondano su un’idea letteraria unitaria che ispira un unico movimento. I poemi di Respighi sono, infatti, articolati in   più movimenti e tendono a raffigurare delle immagini secondo una tradizione descrittiva che risale a un periodo antecedente a quello romantico. Sarebbe sbagliato, tuttavia, pensare che questi poemi si fondano su un puro descrittivismo fine a se stesso, in quanto il compositore volle con questi lavori evocare il passato glorioso di Roma antica e soprattutto le sensazioni e le visioni che particolari luoghi della città eterna producevano nel suo animo.

    Composto nel 1924 ed eseguito per la prima volta al Teatro Augusteo di Roma il 14 dicembre 1924, Pini di Roma, come gli altri poemi della Trilogia romana, è diviso in quattro movimenti i quali, oltre ad avere dei titoli che illustrano il soggetto che Respighi intese rappresentare, sono corredati da una didascalia scritta da Claudio Guastalla. Il primo movimento, I pini di Villa Borghese, che reca la didascalia

    “Giuocano i bimbi nella pineta di Villa Borghese: ballano a giro tondo, fingono marce soldatesche e battaglie, s’inebriano di strilli come rondini a sera, e sciamano via. Improvvisamente la scena si tramuta”,

    rappresenta il gioco dei bimbi con la ripresa di una canzone infantile affidata ai clarinetti e ai fagotti, mentre l’orchestra con i suoi colori riproduce l’atmosfera circostante. Contrabbassi e violoncelli sono, invece, i protagonisti dell’atmosfera lugubre del secondo movimento Pini presso una catacomba, la cui didascalia recita:

    “ed ecco l’ombra dei pini che coronano l’ingresso di una catacomba; sale dal profondo una salmodia accorata, si diffonde solenne come un inno e dilegua misteriosa”.

    Il carattere solenne del luogo è, inoltre, ben rappresentato da un tema gregoriano affidato ai corni ai quali si unisce tutta l’orchestra che, nella parte conclusiva, esegue la salmodia a cui si faceva riferimento nella didascalia.

    I pini del Gianicolo, terzo movimento del poema, rappresentano un’atmosfera serena, suggerita dalla stessa didascalia, nella quale si afferma:

    “Trascorre nell’aria un fremito: nel plenilunio sereno si profilano i pini del Gianicolo. Un usignolo canta”.

    In questo movimento il clarinetto introduce immediatamente un tema sognante, mentre l’adesione del compositore al programma letterario lo conduce a utilizzare nella parte conclusiva un grammofono che riproduce il canto dell’usignolo.

    L’ultimo movimento, I pini della via Appia, evoca, invece, le glorie antiche di Roma, come ci è suggerito dalla didascalia:

    “Alba nebbiosa sulla via Appia. La campagna tragica è vigilata da pini solitari. Indistinto, incessante, il ritmo d’un passo innumerevole. Alla fantasia del poeta appare una visione di antiche glorie: squillano le buccine e un esercito consolare irrompe, nel fulgore del nuovo sole, verso la Via Sacra, per ascendere al trionfo dei Campidoglio”.

    Un movimento di marcia, infatti, sembra inizialmente accompagnare l’esercito consolare il cui trionfo è rappresentato dal progressivo ispessimento del tessuto orchestrale che non si dimentica del motivo iniziale, qui ripreso dai fagotti, dai clarinetti, dai corni e dai flicorni.

     

    Riccardo Viagrande

    Durata: 22'