Bellini Renaissance/Francesco Ommassini

Concerti

Palermo, Politeama Garibaldi - Martedì 3 novembre 2020, ore 20:30

Francesco Ommassini, direttore

Orchestra Sinfonica Siciliana

A chiusura di "BELLINI RENAISSANCE" nel giorno della nascita di Vincenzo Bellini (Catania, 3 novembre 1801)

 

Immagine rimossa.

 

PROGRAMMA DEL CONCERTO

 

 

Vincenzo Bellini
Catania 1801 - Puteaux 1835

 

Sinfonia in re maggiore

Andante sostenuto, Allegro

Sinfonia in re maggiore

Andante sostenuto, Allegro agitato

Sinfonia in mi bemolle maggiore

Larghetto maestoso, Allegro moderato

Capriccio ossia Sinfonia per studio in do minore

Lento, Allegro

 

Gioachino Rossini
Pesaro, 1792 - Parigi, 1868

 

L'Italiana in Algeri, sinfonia

Andante, Allegro

Semiramide, sinfonia

Allegro vivace, Andantino, Allegro

 

Gaetano Donizetti
Bergamo 1797 - Bergamo 1848

 

Don Pasquale, sinfonia

 

Vincenzo Bellini
Catania 1801 - Puteaux 1835

 

I Capuleti e i Montecchi, sinfonia

Adelson e Salvini, sinfonia

Andante maestoso, Allegro agitato

Il Pirata, sinfonia

Norma, sinfonia

Allegro maestoso e deciso

 

Brani sinfonici noti e meno noti di Bellini e sinfonie d'opera di Donizetti e Rossini costituiscono il programma di questo concerto che festeggia il "compleanno" del cigno di Catania.

Meno nota è la prima parte del programma, costituita da due  Sinfonie in re maggiore, dalla Sinfonia in mi bemolle maggiore e dal Capriccio ossia Sinfonia per studio in do minore, lavori giovanili di Bellini di cui non si conosce con precisione la data di composizione ma che molto probabilmente furono composti in un periodo che va dalla giovinezza trascorsa a Catania al 1823, quando il compositore catanese era studente presso il Real Collegio di San Sebastiano. Opere giovanili, dunque, ma che rivelano già le doti del ventiduenne compositore catanese. che, in quel 1823, dopo quattro anni di studio nelle classi di partimenti, pratica consistente nello scrivere melodie su un basso predisposto dall’insegnante, e di contrappunto, tenute rispettivamente da Giovanni Furno e da Giacomo Tritto, era stato finalmente ammesso alla scuola di Nicola Zingarelli, che, già direttore del Real Collegio dal 1813, era uno dei compositori più famosi dell’epoca. Dopo la sua prima affermazione con l’opera Montezuma, rappresentata al San Carlo il 13 agosto 1881, Zingarelli aveva iniziato una brillante carriera di compositore d’opera che lo aveva visto come protagonista nei principali teatri europei. Geloso custode della grande tradizione napoletana, Zingarelli non aveva mai apprezzato Gioacchino Rossini che, proprio in quell’anno, aveva ottenuto un grande successo a Napoli con la sua Semiramide. Al genio del Pesarese non era rimasto indifferente nemmeno Bellini il quale, secondo quanto affermato da Francesco Florimo con una certa retorica nella sua biografia, vedendo

“un’intera generazione invaghita, o, per meglio dire, conquistata dalla potentissima fantasia creatrice di Rossini, si raccolse, e con la calma della meditazione contemplò attonito quell’ingegno gagliardo che soggiogava il secolo: e mentre gli altri scrittori musicali, anco poveretti, si piegavano alla nuova maniera del dominator Pesarese, Vincenzo Bellini, riscaldato dalla scintilla celeste che gli si accendeva nel petto, attinse nell’anima la forza di resistere alle seduzioni delle melodie Rossiniane ed al plauso che ne accompagnava i trionfi. Anziché schierarsi nella folla degl’imitatori, ebbe la coscienza della propria individualità, e, seguendo le aspirazioni dell’appassionata anima sua, seppe con la potenza dell’ingegno e con l’originalità del proprio stile fra i più eletti figli della divina Armonia”.

In queste prime prove, tuttavia, l’influenza rossiniana appare evidente nella scelta di scrivere queste sinfonie non secondo il modello haydniano in più tempi, ma secondo quello della sinfonia d’opera con un’introduzione lenta a cui segue un Allegro in forma-sonata. Aperta da un brevissimo Largo introduttivo con alcuni spunti melodici poco sviluppati, la prima delle due Sinfonie in re maggiore, forse la più antica tra quelle eseguite, in quanto probabilmente composta a Catania prima dell’ammissione al Conservatorio, prosegue con un brillante Allegro bitematico che rivela una precoce vena melodica. Più matura è la seconda Sinfonia in re maggiore, aperta da un Andante sostenuto nel quale appare una melodia dall’arcata già pienamente belliniana. Ad esso segue un Allegro agitato in forma-sonata, più sviluppato e più maturo anche per quanto attiene all’orchestrazione.

Elementi della futura arte del compositore caratterizzano la Sinfonia in mi bemolle maggiore, aperta da un Larghetto maestoso, il cui materiale musicale sarebbe stato utilizzato da Bellini nell'introduzione sia della sinfonia dell'Adelson che di quella del Pirata, nelle quali ritorna con qualche modifica nell'orchestrazione. In forma-sonata, ma privo dello sviluppo, è il successivo Allegro moderato basato su due temi, affidati entrambi agli archi, dei quali il primo è staccato, mentre il secondo è connotato in senso lirico.

La stessa struttura presenta anche il Capriccio ossia sinfonia per studio in do minore, aperto da un Lento introduttivo che si segnala per una melodia di intenso lirismo già pienamente belliniana esposta dai primi violini. Ad esso segue un Allegro basato fondamentalmente su un unico tema il cui inciso iniziale appare vagamente rossiniano nelle semicrome ribattute che ricorda la sinfonia della Cenerentola dalla quale si discosta per assumere contorni melodici originali.

Gioacchino Rossini, che tanto aveva impressionato Bellini, giovane studente del Conservatorio, è rappresentato in questo concerto da due delle sue notissime sinfonie, quella dell'Italiana in Algeri e della Semiramide. Composta nel 1813 e rappresentata, per la prima volta, il 22 maggio dello stesso anno al Teatro San Benedetto di Venezia, L’Italiana in Algeri, che Stendhal definì nella sua Vita di Rossini la perfezione del genere buffo, presenta tra le sue pagine più famose la sinfonia, la cui originalità si avverte già nell'Andante iniziale caratterizzato dalla contrapposizione tra l'organico classico, quello del quintetto d'archi a cui inizialmente sono affidati gli accordi in pizzicato, e quello turco che emerge dopo l'accordo in fortissimo con l'intervento dei legni. All'introduzione lenta segue l'Allegro in forma-sonata senza sviluppo che vive del contrasto tra il primo tema fortemente connotato in senso ritmico e il secondo di carattere lirico che precede il travolgente crescendo.

Composta su commissione della Fenice di Venezia, la Semiramide su testo di Gaetano Rossi, ultima opera italiana di Rossini, alla prima rappresentazione avvenuta il 3 febbraio 1823 con la poco convincente interpretazione della Colbran, lasciò deluso il pubblico veneziano. La tiepida accoglienza alla prima della Fenice non impedì all’opera di imporsi nei maggiori teatri europei dove fu cantata da grandi artisti dell’epoca, come Giuditta Pasta, Maria Malibran e Adelina Patti. Nel repertorio sinfonico si è affermata la sua sinfonia che, aperta da un tipico crescendo, prosegue con uno splendido corale dei corni, tratto dal finale dell’atto primo, che rivela l’ottima conoscenza di Rossini di questo strumento, suonato dal padre e da lui stesso quando era bambino, e con l’Allegro che si impone grazie al brillante primo tema, esposto dagli archi in sottovoce, e al frizzante secondo tema affidato ai fiati che sfocia nel meraviglioso crescendo.

Bellini era già morto quando Donizetti compose il Don Pasquale, nel quale l’opera buffa settecentesca, fatta di civettuole e astute giovani donne, di vecchi e sciocchi spasimanti, di dottori intriganti, ormai tramontata, sembra ritrovare una nuova vitalità. Quest'opera era stata, infatti, composta nel 1842 da un Donizetti, ormai all’apice della gloria e conteso da importanti teatri europei, ma anche stanco e malato, che aveva declinato tutte le offerte propostegli, tranne quella del Théâtre Italien di Parigi con il quale aveva stipulato un contratto che recitava: Il Donizetti era tenuto a comporre per il gennaio del 1843 un’opera buffa su un libretto di Giovanni Ruffini. Si tratta appunto del Don Pasquale, il cui libretto fu tratto da Ruffini e dallo stesso Donizetti, dal Ser Marcantonio di Anelli che nel 1810 era stato messo in musica da Stefano Pavesi. L’opera, alla prima rappresentazione del 3 gennaio 1843 al Théâtre Italien di Parigi, ottenne un notevole successo grazie anche al cast formato da Giulia Grisi (Norina), Giovanni Matteo Mario (Ernesto), Antonio Tamburini (Malatesta), Luigi Lablache (Don Pasquale), la cui presenza era stata espressamente richiesta da Donizetti il quale, l’indomani, in una lettera indirizzata all’allievo Matteo Salvi, manifestò tutta la sua gioia:

"Iersera diedi Don Pasquale. L’esito fu dei più felici. Ripetuto l’Adagio del Finale del 2 atto. Ripetuta la stretta del duetto tra Lablache e la Grisi. Sono stato chiamato alla fine del 2 atto e del 3. Non vi fu pezzo, dalla sinfonia in seguito, che non fosse più o meno applaudito. sono contentone".

L'opera è introdotta da una splendida ouverture pot-pourri, nella quale dopo le prime brillanti battute d’introduzione, il violoncello espone il malinconico tema della serenata di Ernesto dell’atto terzo (Com’è gentil), al quale si contrappone quello civettuolo, brillante e da opera buffa della cabaletta della cavatina di Norina (So anch’io la virtù magica).

Un notevole successo arrise anche a I Capuleti e i Montecchi, rappresentata per la prima volta alla Fenice di Venezia l'11 marzo 1830, come si evince da quanto affermato dall'estensore della «Gazzetta privilegiata di Venezia» sulla quale si legge:

"Non vogliamo troppo a lungo indugiarci il piacere di dare buona novella. L’opera del maestro Bellini, che andò in scena ieri sera ebbe l’esito più strepitoso e felice. Acclamazioni ed applausi senza fine al principio, al mezzo ed al termine di ogni atto".

L’opera si apre con una concisa sinfonia che, dal punto di vista formale, può essere ricondotta ad una rielaborazione piuttosto libera di una forma-sonata ridotta all’esposizione e alla coda. Aperta da un rullo di timpani che introduce degli squilli di carattere militare, la sinfonia si snoda su tre temi diversi dei quali il primo è una cellula tematica estremamente incisiva affidata ai corni, il secondo è un tema marziale intonato dai legni che sembra anticipare Già mi pasco nei tuoi sguardi della Norma e il terzo, che dà l’avvio al crescendo, è una cellula motivica breve ed orecchiabile che Bellini utilizzerà come accompagnamento nel coro iniziale di introduzione.

Composta come saggio di diploma, Adelson e Salvini è la prima opera di Vincenzo Bellini che, eseguita, per la prima volta, nel teatrino del collegio di San Sebastiano il 12 gennaio 1825, riscosse un successo tale da essere replicata ogni domenica per un anno intero e da lanciare il giovane compositore catanese nel panorama musicale dell'epoca. Per comporla Bellini si era avvalso di un vecchio libretto che Tottola, poeta ufficiale del San Carlo e anche librettista di molte opere di Rossini, aveva scritto per Valentino Fioravanti nel 1816 e che dal punto di vista formale ricordava la settecentesca Commedeja pe’ Mmuseca napoletana dalla quale traeva l'alternanza di brani cantati a lunghi dialoghi e l'uso del dialetto napoletano che, però, in questo caso è limitato alla sola parte di Bonifacio. Mancante nell'autografo conservato presso il Museo Belliniano di Catania, la sinfonia è stata ricostruita in seguito a un fortunato ritrovamento delle parti orchestrali nel 2001 nel Fondo Mascarello presso la Biblioteca del Conservatorio di Milano; questo ritrovamento ha consentito di lavorare a un’edizione critica ad opera del professore Fabrizio Della Seta per la Casa Editrice Ricordi. La sinfonia, nella versione riportata alla luce, si presenta come una prefigurazione di quella del Pirata dalla quale differisce oltre che per alcuni dettagli nel primo tema dell'Allegro in forma-sonata (un mi raggiunto con un'appoggiatura discendente e qualche lieve differenza di natura ritmica), per l'assenza dell'Allegro con fuoco iniziale.

Patrocinato da Domenico Barbaja il quale, oltre ad essere impresario dei teatri napoletani, era anche appaltatore del Teatro alla Scala di Milano e raccomandato da Zingarelli e Mercadante che contribuì a fare conoscere Romani a Bellini nel 1827,  il compositore catanese approdò nel celebre teatro milanese proprio con Il Pirata, il cui libretto di Romani tratto dal mélodrame Bertran, ou Le Pirate di I. J. S. Taylor, a sua volta ispirato alla tragedia in 5 atti di Charles Robert Maturin, Bertram, or The Castle of Saint-Aldobrand, ha tutti gli ingredienti del dramma romantico. Romani, nella stesura del testo, insolito per quel periodo per la presenza di tematiche romantiche e di pirati divenuti tali perché costretti dalle vicende della vita, oltreché per le ambientazioni misteriose e la forte attrazione esercitata da essi sulle donne, apportò delle modifiche per rendere meno pesante il testo; eliminò, infatti, i balletti, gli inutili colpi di scena, l’adulterio di Imogene, la scena del castello in fiamme con la morte dei due amanti nell’incendio. Inoltre, per rendere più comprensibile la vicenda, nella versione a stampa fece precedere il testo da un antefatto. Dal punto di vista musicale l’opera è un lavoro già maturo pur mostrando una certa continuità nello stile evidente nella sinfonia, nella quale le parti migliori di quella dell’Adelson ritornano e brillano di nuova luce. All’attacco della sinfonia è stato inserito da Bellini un Allegro con fuoco di grande effetto, costruito con accordi ribattuti a cui risponde una semifrase di carattere lirico; ad esso seguono l’Andante maestoso e l'Allegro agitato, tratti, con le modifiche di cui si è parlato in precedenza,  interamente dalla sinfonia dell’Adelson.

Composta in meno di tre mesi tra l’inizio di settembre e la fine di novembre del 1831, anno prodigioso per Bellini, reduce del grande successo ottenuto con la Sonnambula il 6 marzo al teatro Carcano di Milano, Norma è una delle sue opere più note, nonostante il fiasco della prima rappresentazione avvenuta il 26 dicembre dello stesso anno alla Scala di Milano. Così Bellini commentò a caldo la stessa sera della prima in una lettera indirizzata al suo amico e compagno di studi al Conservatorio Francesco Florimo:

“Ti scrivo sotto l’impressione del dolore: di un dolore che non posso esprimerti, ma che tu solo puoi comprendere. Vengo dalla Scala: prima rappresentazione della Norma. Lo crederesti… Fiasco!!! Fiasco!!! Solenne fiasco!!!".

L’opera, giudicata troppo affrettatamente fiacca e stentata dalla «Gazzetta privilegiata di Milano» nel numero del 30 dicembre, non ebbe, però, molta difficoltà ad affermarsi immediatamente e qualche giorno dopo, il 3 gennaio 1832, lo stesso quotidiano milanese dovette ricredersi, ammettendo che:

“Il giudizio del pubblico, sempre incerto la prima sera di uno spettacolo, si è dichiarato successivamente favorevole e lo spartito di Bellini potrà essere cantato con buon successo”.

L’insuccesso della prima serata, dovuto forse sia alla scarsa vena di Giuditta Pasta, che aveva trovato particolarmente difficile la “cavatina” Casta diva, sia all’ostilità di una parte del pubblico sobillata da Giulia Samoiloff, amante di Pacini, compositore catanese meno famoso e rivale di Bellini, che il 10 gennaio dello stesso anno avrebbe dovuto mettere in scena sempre nel teatro scaligero il suo Corsaro, non pregiudicò l’affermazione dell’opera che tenne il cartellone per ben 34 serate. Della grandezza di Norma si era accorto Gaetano Donizetti, il quale, certamente molto più competente del pubblico scaligero e dell’anonimo recensore della «Gazzetta privilegiata di Milano», aveva scritto ad un amico il 31 dicembre 1831:

“L’unico avvenimento musicale di straordinaria importanza è stato quello delle rappresentazioni della Norma del giovane maestro Vincenzo Bellini… A me tutto lo spartito della Norma piace moltissimo e da quattro sere vado a teatro per risentire l’opera di Bellini fino all’ultima scena”.

L’opera si apre con la splendida Sinfonia, che ne introduce il clima drammatico sin dal celeberrimo incipit costituito da perentori accordi in sol minore intercalati da pause. Dopo un primo tema agitato e nervoso, che anticipa, secondo l’uso romantico introdotto da Weber, alcuni momenti particolarmente drammatici dell’opera e soprattutto alcuni interventi dell’orchestra durante i recitativi, appare in sol maggiore il tema del duetto dell’atto secondo tra Norma e Pollione; dopo un nuovo ponte modulante nervoso e drammatico, questo tema riappare in si bemolle maggiore per cedere il testimone ad un nuovo momento agitato che precede la suggestiva coda in sol maggiore, un’oasi di poetica contemplazione prima del breve e movimentato finale.

 

Riccardo Viagrande

 

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